Come “lucciole che stanno nelle tenebre”, per ricordare un autore1F. Battiato, Up Patriots To Arms, 1980 compianto, si pongono i riformatori progressisti nel discutere dei sistemi di welfare. In quest’opera fondamentale ma ostacolata dal tempo in cui viviamo (tenebroso appunto, come vedremo) il libro di Chiara Giorgi e Ilaria Pavan Storia dello stato sociale in Italia (Il Mulino, 2021)2Nel resto dell'articolo ci riferiremo a questo testo con un rinvio alla pagina tra parentesi tonde. offre uno strumento imprescindibile per acquisire profondità storica e analisi di prospettiva nell’affrontare il dibattito pubblico.
La prima pagina accoglie inaspettatamente il lettore in una seduta della Camera dei Deputati del 1914, il giorno dopo l’attentato di Sarajevo in cui morì il principe Francesco Ferdinando d’Asburgo. Lo scontro parlamentare verteva, piuttosto che su questioni di politica estera, sulla carenza della legislazione sociale dell’Italia, che alla vigilia della Prima guerra mondiale era un primato negativo nel contesto internazionale, soccombendo perfino di fronte alle politiche di Danimarca e Nuova Zelanda.
Questo ritardo era figlio della prevalenza conquistata nel campo dell’assistenza dalla carità legale, soggetta ad un blando controllo statale, e della previdenza libera, difesa anche da influenti intellettuali come Luigi Einaudi. Egli, che avrebbe lodato l’austerità attuata dal fascismo nei primi anni ’20, riteneva il modello di assicurazione obbligatoria tedesco “un collettivismo mortificatore delle più belle ed originali energie individuali” (p.30).
Altro tratto della scarna legislazione sociale dello Stato liberale, che sarà poi un elemento di continuità nello Stato sociale italiano, era l’attribuzione al Ministero dell’Interno della competenza sulla salute pubblica. Essa sarebbe durata per oltre un secolo, a partire dal 1865, anche dopo la formale creazione di un Ministero della Salute. Tale ripartizione delle competenze esprimeva ed avrebbe a lungo espresso una perdurante concezione della salute come questione di ordine pubblico più che come una complessa e qualificante garanzia di un “fondamentale” diritto sociale. Affare di prefetti, non di medici.
Il ruolo della Prima guerra mondiale
Il paradigma con cui si riflette sulla nascita dello Stato sociale italiano nel biennio 1917-1919 è descritto efficacemente dal binomio warfare-welfare. La Prima guerra mondiale ebbe un effetto acceleratore, dinanzi ad una popolazione che già prima del conflitto era affetta da un’alta percentuale di riformati e di mortalità infantile, e che vedrà poi 5 milioni di uomini mobilitati, 560.000 caduti e 460.000 gravi feriti, invalidi o mutilati. Durante il conflitto, lo Stato intervenne con ben 337 norme, introdotte tra il maggio 1915 e l’ottobre 1919, mettendo certo al centro “la figura del combattente e le sue necessità” ma anche come simbolo di una rete familiare e di affetti “che andava ben oltre la sua sola figura” (p.38).
Se da un lato si può quindi affermare che le prime misure riformatrici furono “forme di risarcimento alla nazione in armi, incastonate nella narrazione retorico-patriottica del binomio sacrificio-ricompensa”, fu inevitabile che le nuove provvidenze non vennero più percepite come umiliante elemosina dai beneficiari, ma come diritti. Acquisiti certo per la partecipazione al conflitto e non nella forma dei diritti sociali che emaneranno solo più tardi da un nuovo modello di cittadinanza, ma pur sempre in una temperie di ridefinizione dei confini della cittadinanza stessa e dei “compiti dello Stato nei confronti dei cittadini” (p.40).
Il periodo fascista
Nell’economia del volume riveste poi un ruolo centrale la trattazione dello sviluppo in epoca fascista dello Stato sociale (p. 91-207). Muovendo dalla path dependence seguita dai sistemi di welfare all’interno del contesto nazionale in cui si formano, con lo studio del periodo fascista le autrici riflettono anche sugli elementi di continuità che rispetto ad esso manterrà lo Stato sociale repubblicano.
È quindi per tale via che si riesce ad apprezzare la tensione, tipica del welfare state novecentesco, “tra la tendenza a riprodurre logiche paternalistiche e patriarcali di dominio e la tendenza a riqualificare e ad arricchire la cittadinanza democratica”1. Il clientelismo, la selettività e la frammentazione che connotano le politiche sociali fasciste si riverbereranno anche in età repubblicana.
Altrettanto farà l’introduzione nel 1934 degli assegni familiari per gestire la disoccupazione e il complesso degli interventi pro-natalisti in cui si inserivano nel sostenere una certa concezione di famiglia che permarrà ben oltre la conclusione del ventennio: un modello familiare che Chiara Saraceno ha lucidamente definito “il nuovo patriarcato delle classi medie”2, fondato sul sostegno e sulle provvidenze del regime e sul lavoro domestico femminile non retribuito (p.104).
La nuova Costituzione
Dinanzi ad uno scenario di grande frammentazione dello Stato sociale e di scarsa qualità delle prestazioni, il secondo Dopoguerra vide riemergere un dibattito sul tema. Nonostante la diversa ricezione del piano Beveridge da parte delle varie culture politiche, il fermento intellettuale post-bellico (reso possibile dall’uscita da un ventennale isolamento ideologico e culturale) trovò una convergenza nell’elaborazione di innovative norme costituzionali in tema di protezione sociale. Per certi versi ciò avvenne persino con inconsapevolezza dei suoi potenziali effetti.
Sono fondamentali l'articolo 38 della Costituzione3, istituente il sistema di sicurezza sociale, e l’articolo 32, che definisce il diritto alla salute, in modo unico nella Costituzione, come diritto sociale espressamente “fondamentale”. Ma la norma più dirompente fra queste fu il principio di eguaglianza sostanziale espresso dal secondo comma dell’articolo 3 della Costituzione. Quella che è a tutti gli effetti “la norma più rivoluzionaria della Costituzione”, approvata quasi inconsapevolmente dai costituenti su originaria ispirazione di un grande giurista come Massimo Saverio Giannini, sarà invece “alla base dello sviluppo dello Stato sociale”4 in Italia.
Prendendo atto di un contrasto tra l’ordine giuridico e l’ordine sociale, tra l’uguaglianza formale del primo comma e “gli ostacoli di ordine economico e sociale” che facevano sì che nei fatti quell’uguaglianza non vivesse nella realtà sociale, nel secondo comma la Repubblica si prendeva l’impegno di rimuoverli per garantire “il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Una norma che vivrà l’ostracismo, oltre che di molte forze politiche, anche della giurisprudenza e di una certa interpretazione della Corte costituzionale che privilegerà il primo comma dell’art. 3 come parametro, ma che sarà la base della stagione delle riforme degli anni ’70, nella sua natura di “norma-cardine del nostro ordinamento costituzionale”5 e sotto la pressione di conflitti e rivendicazioni sociali.
Dalle parole ai fatti
Il quadro del welfare state nei primi due decenni post-bellici fu ben distante dal potenziale espresso dalla Carta. L’eredità fascista, nella sua dimensione familista e corporativa, denunciava un “fallimento dell’universalismo”, una netta prevalenza dei trasferimenti monetari su quelli in beni e servizi, un’inefficiente e ineguale (anche territorialmente) distribuzione delle prestazioni. Perciò, si può facilmente definire il sistema di sicurezza sociale di allora una sorta di “mantello di Arlecchino, pieno di aggiunte e rattoppi, fatto di colori e di tonalità fortemente contrastanti tra loro”, , come fanno le due autrici mutuando un’efficace espressione di Domenico Preti (p.312)6.
Soltanto a partire dal biennio 1968-69 un forte protagonismo sindacale (fino alla cosiddetta svolta dell'Eur del 19783Con cui ci si riferisce ad una nuova linea dei sindacati confederali affermatasi nel 1978 su iniziativa del segretario della CGIL Luciano Lama orientata all’accettazione del contenimento salariale e al cessare del protagonismo sindacale nel definire anche la struttura dello Stato sociale verso l’impegno del governo a realizzare investimenti che garantissero maggiore occupazione e sviluppo economico.) e un’accentuata conflittualità sociale porteranno all’introduzione di gran parte della più avanzata struttura dello Stato sociale italiano.
Essa fu rappresentata emblematicamente dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale, di matrice universalista e finanziato dalla fiscalità generale (l.n. 833/1978), cui le autrici dedicano un intero capitolo (pp. 399-466), e che ben riassume un decennio di grandi conquiste progressiste ottenute quando in altri stati europei il capitalismo si stava già riorganizzando e i sistemi di welfare iniziavano la loro parabola discendente. Le riforme degli anni del centro-sinistra furono rese possibile dalle “spinte provenienti dalla società, da un’inedita politica delle alleanze, dal rinnovamento istituzionale, dal disgelo costituzionale, dal movimento sindacale e dai partiti della sinistra” (p.465).
Il declino dello Stato sociale
Infine, dato questo affascinante itinerario, è importante capire dove siamo oggi. Se nel 1949 T.H. Marshall7, dal privilegiato osservatorio britannico, poteva sostenere che con l’affermazione dei diritti sociali si stava completando il terzo livello della cittadinanza (dopo l’acquisizione delle libertà civili e politiche tra XVIII e XIX secolo), era perché nonostante i tentativi di critica del welfare state esso stava vivendo la sua età dell’oro. Si riusciva infine a rispondere a quella che Karl Polanyi8, nel tratteggiare la “grande trasformazione” avviata dalla rivoluzione di fine ‘700, chiamava “la pretesa legale di sussistenza” dei poveri e delle classi meno abbienti.
Le stesse argomentazioni di Hayek (riassumibili nella diretta proporzionalità tra estensione del raggio d’azione di uno stato e la propensione alla servitù) si scontravano al tempo con il grande consenso di cui godevano i sistemi di welfare in modo trasversale fra partiti.
Si dovranno aspettare i primi anni ’70 perché si possa attaccare il welfare state, come faranno, seppur da posizioni anche molto diverse, tra i molti, autori come O’Connor, Offe, Murray, Mead e Huntington9. In un contesto di crisi economica e finanziaria, la scarsità delle risorse divenne il terreno fertile su cui costruire una critica allo Stato sociale che non mutuasse l’attacco alla libertà e alla democrazia dall’economista austriaco, ma che spostasse il tentativo di delegittimazione sull’intralcio opposto alla crescita economica e sull’alimentazione delle crisi di governabilità di stati sovraccaricati da nuovi compiti superiori alle loro possibilità.
La tendenza alla delegittimazione dello Stato sociale e all’esplosione delle disuguaglianze sociali a livello globale sembrava in contraddizione con il rilievo assunto dai diritti sociali tra i diritti di nuova generazione contenuti nelle molte carte dei diritti4Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (1989), revisione della Carta sociale europea (1996), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (approvata prima nel 2000 e dal 2007 avente pari valore dei trattati), pilastro sociale della UE (2017)., perlopiù non vincolanti, approvate negli ultimi decenni. Una contraddizione solo apparente però, se assumiamo che “il fine dei diritti sociali non è più una qualche forma di uguaglianza sostanziale, con le conseguenti implicazioni redistributive, ma diviene piuttosto la garanzia di un minimo di risorse sufficienti a condurre una vita dignitosa al di sopra della soglia di povertà”10.
Il trionfo globale del neoliberismo e la definitiva chiusura del “secolo breve” dello Stato sociale (pp. 501-503) è una storia che le autrici, nel loro prezioso volume, si limitano soltanto ad accennare. Essa, però, può essere compresa in profondità solo a partire da un'approfondita lettura di queste utilissime pagine di accurata ricostruzione storica: scritte per storici, giuristi, scienziati sociali e per chiunque (legandosi al brano citato in apertura) scelga patriotticamente di brillare nelle avverse tenebre del presente.