Il tema delle regole fiscali europee è al centro del dibattito pubblico da diversi anni, ed è ormai acquisito il consenso tra economisti ed addetti ai lavori sulla necessità di una loro riforma. Un recente lavoro di Olivier Blanchard (ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale) e coautori si inserisce in questo dibattito con una tesi radicale: le regole di bilancio a cui ogni stato membro deve attenersi dovrebbero essere non tanto riformate quanto piuttosto eliminate.
Lo studio, presentato all’ultimo meeting della rivista scientifica Economic Policy (organizzato con il supporto del Ministero delle Finanze tedesco, un dettaglio non trascurabile), propone di rimpiazzare l’attuale impianto regolamentare europeo in materia di bilanci pubblici nazionali, fatto di precisi criteri quantitativi, con degli standard fiscali definiti in termini soltanto qualitativi, all’interno dei quali i paesi avrebbero ampia libertà di movimento. Le linee guida dovrebbero stabilire degli obiettivi generali di lungo periodo, e il loro contenuto preciso (e quindi anche la loro eventuale violazione) dovrebbe essere definito soltanto ex post, in base all’analisi della situazione economica contingente.
L’argomentazione degli autori si basa su due punti tanto semplici quanto incontestabili. Il primo: in un’economia in cui i tassi di interesse sono prossimi allo 0 (o addirittura negativi), da un lato anche i debiti pubblici più corposi presentano una bassa probabilità di default, e dall’altro la politica fiscale assume un ruolo centrale, dal momento che l’efficacia della politica monetaria è ridotta. Il secondo: nella letteratura scientifica non esiste una teoria univoca sulla sostenibilità del debito pubblico. Il giudizio sulla sostenibilità del debito di un paese è materia complessa, e può variare a seconda del paese preso in esame o del momento storico. Di conseguenza, nessuna regola fiscale definita ex ante può essere ottimale per ogni paese e per ogni contingenza: come abbiamo imparato dalla crisi sanitaria, la varietà degli shock che possono colpire le nostre economie non è prevedibile e richiede soluzioni ad hoc.
Ciò è del resto dimostrato dallo stesso sviluppo storico delle regole fiscali europee. L’architettura originaria, stabilita nel Trattato di Maastricht del 1992 e nel Patto di Stabilità e Crescita del 1997, era fondata su due semplici limiti: il limite del 3% per il rapporto deficit/Pil e quello del 60% per il rapporto debito/Pil.
L’inadeguatezza di questa regola divenne evidente durante lo stesso processo di creazione dell’euro: nel 1998, 7 degli allora 12 membri dell’Unione avevano un debito pubblico superiore al 60% del Pil, e la norma secondo cui il limite poteva essere derogato a condizione che il trend fosse su una traiettoria decrescente e la decrescita avvenisse ad un “ritmo soddisfacente” era chiaramente violata da Grecia (il cui debito stava aumentando), Belgio e Italia (i cui debiti stavano diminuendo, ma ad un ritmo molto lento).
Insomma: il trattato che istituiva l’unione monetaria, se applicato rigorosamente, avrebbe impedito la nascita dell’unione monetaria. Nel corso degli anni, le regole sono state più volte riformate, nel tentativo di consentire la flessibilità necessaria per tenere conto delle fasi avverse del ciclo economico. Il risultato, ad oggi, è un complicato groviglio regolamentare fatto di eccezioni, deroghe e clausole, fondato sulla stima di variabili teoriche non direttamente osservabili, e quindi inevitabilmente oggetto di grande incertezza, come il Pil potenziale e l’output gap.
Nonostante la maggiore flessibilità concessa, la maggior parte degli economisti concorda nel ritenere l’impianto delle regole fiscali ancora troppo prociclico (ossia amplificatore, anziché stabilizzatore, del ciclo economico), imponendo in particolare ai paesi a più alto debito costosi e controproducenti aggiustamenti fiscali durante le crisi. D’altro canto, le regole di Maastricht, seppur assurdamente rigide, possedevano quantomeno due dei requisiti fondamentali che una buona regola dovrebbe avere, e che a quelle attuali mancano, ovvero la chiarezza e la trasparenza.
Gli autori evidenziano che l’originaria architettura fiscale europea era pensata con l’obiettivo di prevenire le cosiddette esternalità di debito, ovvero le ripercussioni negative che un’eventuale crisi di debito pubblico all’interno di un paese avrebbe sugli altri membri dell’unione. Tali esternalità sono evidentemente maggiori più alto è il grado di integrazione economica tra i paesi.
Tuttavia, gli stessi autori riconoscono la presenza di un altro tipo di esternalità: quella relativa alla domanda aggregata. In una zona economica fortemente integrata, un’espansione fiscale ha effetti contenuti sulla domanda interna del paese che la attua, perché il maggior reddito disponibile si riversa in parte nell’acquisto di beni prodotti dagli altri paesi.
Di conseguenza, ogni paese ha un minore incentivo ad utilizzare la propria leva di politica fiscale, sperando nell’espansione degli altri. Il risultato di questo gioco non cooperativo è che la politica fiscale risulta troppo poco espansiva, rispetto al livello ottimale, dal punto di vista dell’Unione nel suo complesso. Ciò implica che l’esternalità relativa alla domanda, richiedendo come soluzione una politica più espansiva, entra in contraddizione (specialmente in momenti di crisi) con l’esternalità relativa al debito.
La soluzione più ovvia per risolvere entrambe sarebbe l'istituzione di una unione fiscale completa, in cui un organismo centrale decide i livelli di spesa e di debito per l’intera unione, “internalizzando” le esternalità. Ma gli scontri sul Recovery Fund a cui stiamo assistendo in questi giorni, nonostante la drammaticità della situazione, sono lì a ricordarci quanto sia politicamente difficile percorrere questa strada.
La proposta dell’eliminazione delle regole fiscali è inoltre interessante non solo dal punto di vista politico, ma anche dal punto di vista scientifico. Esiste infatti una corposa letteratura, originata dal lavoro di Kydland e Prescott (1977), che sostiene la superiorità delle regole sulla discrezionalità nell’ambito della conduzione della politica economica. L’argomento è così riassumibile: posto che le aspettative giocano un ruolo fondamentale nella determinazione delle variabili economiche, le autorità di politica economica possono raggiungere dei risultati migliori se riescono a muoverle nella direzione desiderata.
Ma ciò risulta impossibile in un regime di piena discrezionalità. La ragione è la mancanza di credibilità degli annunci: ciò che è ottimale promettere dal punto di vista di oggi, non è più ottimale dal punto di vista di domani, quando è arrivato il momento di attuare le promesse fatte. In altre parole, gli annunci di politica economica sono, come dicono gli economisti, "time inconsistent” (o come dice Guido da Montefeltro nel XXVII canto dell’Inferno di Dante, “lunghe promesse con l’attender corto”). Ma allora, sotto l’ipotesi che gli agenti economici formano le aspettative in maniera razionale, non possono essere credibili. Da qui sorge “il vantaggio di legarsi le mani” (Giavazzi e Pagano, 1980) con regole definite ex ante in maniera rigida, in grado di limitare la tentazione dei governi di rimangiarsi le loro promesse. Questo è, tra l’altro, uno dei principali benefici teorizzati per sostenere l’ingresso dell’Italia nella moneta unica, ovvero il guadagno in termini di credibilità derivante dal rafforzamento del vincolo esterno.
La teoria poggia su un’assunzione implicita fondamentale: l’esistenza di una funzione di benessere sociale stabilita a priori, la cui massimizzazione definisce quindi il sentiero ottimale della politica economica. Il punto è tutto qui: Blanchard e i suoi coautori sostengono che non è possibile definire a priori la politica economica ottimale, dal momento che, per essere tale, dovrebbe comprendere una varietà di fattori contingenti talmente complessa da essere impossibile da identificare ex ante. Insomma: il problema risiede nel concetto stesso di regola in materia di politica fiscale (o di politica economica più in generale), perché nessuna regola, per quanto elaborata, può catturare la complessità e l’imprevedibilità della realtà economica. La storia delle regole fiscali europee sembra dare ragione a questa tesi: ad ogni crisi si è cercato di rispondere con il raffinamento delle regole, nel tentativo di adattarle ad una realtà in continuo mutamento, fino ad arrivare all’emergenza attuale che ha addirittura costretto la Commissione europea a sospendere il Patto di Stabilità. La crisi che stiamo vivendo, come ogni crisi, offre l’opportunità di ripensare nel profondo l’architettura economica dell’Unione europea.
Riferimenti bibliografici:
Blanchard, Leandro, Zettelmeyer (2020): “Redesigning the EU Fiscal Rules: From Rules to Standards”, 72nd Economic Policy Panel Meeting
Giavazzi, Pagano (1988): “The Advantage of Tying One's Hands: EMS Discipline and Central Bank Credibility”, European Economic Review
Kydland, Prescott (1977): “Rules Rather than Discretion: The Inconsistency of Optimal Plans”, Journal of Political Economy
Ma come mai Blanchard and co. si accorgono solo adesso e male di ciò che Arrow dimostrò a metà degli anni ’50 riguardo l’impossibilità di definire una funzione di benessere sociale?
Prima bisogna capire che la creazione e la spesa della moneta è in sé stessa un’azione fiscale…