Continua implacabile il rullo compressore della nuova Confindustria presieduta da Bonomi. Dopo aver passato l’intero lockdown a pressare il governo prima sulla non istituzione di zone rosse e successivamente sulle riaperture, ora si prepara a “contratti rivoluzionari”.
Nelle precedenti interviste Bonomi si era già scagliato contro le misure adottate dal governo Conte ed in particolare aveva lamentato scarsa attenzione per le imprese. Ma è stato davvero così?
Nel solo Decreto Rilancio (convertito con modificazioni dalla L. 17 luglio 2020, n. 77) all’Art. 25 è stato istituito un contributo a fondo perduto per tutti i soggetti che svolgono attività d’impresa, lavoro autonomo e di reddito agrario per un totale di 6.192 milioni di euro. Il Decreto Agosto (n. 104 del 14 agosto) ha rafforzato i contributi a fondo perduto nel settore della ristorazione (imprese operanti in codici ATECO 56.10.11, 56.29.10 e 56.29.20) con 600 milioni per l’anno 2020, mentre altri 500 milioni sono destinati al supporto a fondo perduto per le attività economiche e commerciali nei centri storici.
Inoltre, con il Decreto Agosto si è rifinanziato il fondo garanzia per le imprese introdotto dal DL Liquidità (convertito in L.5 giugno 2020 n.40) che facilita l’accesso al credito attraverso garanzia pubblica al 100% - sui prestiti per un massimo di 30.000 euro con durata massima decennale. Fondo che per altro lo stesso Bonomi criticava affermando che “la strada di far indebitare le imprese non è quella giusta”, nonostante i numeri lo smentiscano clamorosamente: dal 17 marzo fino al 27 agosto sono state ricevute 1.016.040 domande di accesso al credito per un totale di oltre 73 miliardi euro di importi finanziati, con una media di 72.238.12 euro di finanziamento concesso.
Considerando anche i vari crediti d’imposta concessi, bonus bollette e la cassa integrazione, affermare che lo Stato non abbia garantito le necessarie e sufficienti risorse per le imprese significa essere fuori dalla realtà. Che Bonomi pretenda ancora di più, specialmente sottraendo risorse dai sussidi destinati a famiglie e lavoratori non è una sorpresa, anzi è perfettamente coerente con la sua linea politica ed ideologica: tutte le risorse devono essere destinate alle imprese perché esse sono le uniche generatrici di ricchezza e lavoro. Lo Stato deve limitarsi a garantire loro le risorse necessarie.
È per questo motivo che rincara la dose chiedendo contratti “rivoluzionari”. Aggettivo che sembrerebbe azzeccato se e solo se calato nel contesto della seconda rivoluzione industriale, condizioni materiali dei lavoratori a cui chiaramente ambisce Bonomi. Altrimenti non si capisce cosa ci sarebbe di “rivoluzionario” nella pretesa dei liberali di schiacciare i salari per aumentare l’estrazione di plusvalore – attaccando i “ribelli” di Confindustria che osano garantire qualche misero aumento nei nuovi contratti – e di essere liberi di licenziare i lavoratori.
Bonomi ignora come il blocco dei licenziamenti sia stato accompagnato dalla garanzia della cassa integrazione che consiste in un significativo risparmio di costi di gestione (oltre alla facilità con cui le imprese hanno attuato frodi per usufruire dei fondi: secondo un’indagine dell’INPS sarebbero circa 3mila le imprese che hanno adottato comportamenti fraudolenti) e pretende di giustificare la possibilità di licenziamento come un miglioramento di produttività e capacità di ripresa.
In realtà ciò consiste semplicemente nell’idea di spostare nel tempo lo stock di disoccupati nell’illusione che parte di questo stock venga riassorbito in flussi verso l’occupazione grazie alla nuova ripresa del ciclo economico. Un po’ come dire che se oggi impieghiamo schiavi possiamo poi, magari, permetterci di assumerli a salario. Inoltre, evitare il blocco dei licenziamenti potrebbe consentire di sostituire lavoratori relativamente stabili e con profili salariali migliori con lavoratori precari a minor costo.
L’ultimo attacco di Bonomi riguarda il ruolo delle imprese nella diffusione del virus. Un vecchio pallino che risale alle pressioni sul governo al fine di non istituire zone rosse in Lombardia all’inizio del picco della pandemia. Come già analizzato, è una posizione che evidentemente non rispecchia i dati che osserviamo. Ai casi di Bartolini, DHL e dei braccianti di Mondragone si sono aggiunti numerosi focolai scoppiati sui posti di lavoro, per ultimo un focolaio di 182 contagiati in uno stabilimento AIA nel trevigiano.
Qualcuno ha capito che l’idea che le imprese non veicolino i contagi è irrealistica e per questo motivo ha più semplicemente proposto l’istituzione di un mercato per gli infection rights, ossia la possibilità per gli imprenditori di pagare affinché i propri dipendenti corrano il rischio di ammalarsi. Lo Stato vende la quantità ottimale di infection rights determinata dal livello di contagio socialmente desiderato e le virtù del mercato consentono alle imprese di continuare la loro attività produttiva. Insomma, tra i più ricchi capitalisti ci si arroga il diritto di mettere a repentaglio la vita dei lavoratori.
Ribadiamolo, tutto questo è perfettamente coerente e logico all’interno del campo politico e di lotta a cui Bonomi & co. appartengono. Il problema enorme è che dinanzi a questo rullo compressore pare non esserci alcun blocco, alcuna forza in grado di contrastarlo. I sindacati confederali sembrano non avere la più lontana idea di come contrastare lo strapotere di Confindustria, arroccati ormai nelle loro posizioni conservatrici e incapaci di azioni propositive di lotta ai continui e repentini mutamenti del capitalismo. Mentre in Finlandia si discute di riduzioni di orario di lavoro a parità di salario e in Germania si sperimenta il reddito di base incondizionato, in Italia Bonomi propone come unica risposta il welfare aziendale - che altro non fa che creare maggiori spaccature e differenze all’interno della classe lavoratrice - dinanzi a sindacati sempre più indeboliti.
[…] che proprio su Kritica Economica aveva analizzato criticamente (come è giusto che sia) la linea politica della Confindustria di […]