Banchi con rotelle, metro statico, metro dinamico, mascherine, plexiglass, sono i temi che monopolizzano il corrente dibattito pubblico sulla Scuola italiana. Il Ministro Azzolina viene da mesi ripetutamente interrogata su questioni esclusivamente tecniche, segnale che il Belpaese non ha perso il suo tradizionale approccio miope alla Scuola, concepita come mero spazio di formazione nozionistica, e ignorata nella sua funzione più significativa: quella sociale.
Nelle aule scolastiche ragazzi di estrazioni familiari ed economiche differenti si incontrano, si confondono, crescono insieme, acquisendo gli strumenti culturali che permetteranno ad alcuni di loro di fuggire da realtà disagiate. La politica però sembra aver dimenticato che la Scuola è l’ingranaggio più importante dell’ascensore sociale italiano, un ingranaggio che da tempo non viene oliato, rendendo sempre più difficoltosa la “mobilità verticale”.
Sandro Pertini soleva dire a riguardo che “non esiste Libertà senza giustizia sociale”: non è un Paese libero quello in cui le condizioni socioeconomiche di un individuo sono predeterminate al momento della nascita, quello in cui chi nasce povero probabilmente lo resterà per tutta la vita. L’indice di “mobilità sociale” elaborato dal World Economic Forum nel 2020 colloca il nostro paese al 34esimo posto su 82 Stati analizzati: le probabilità che un bambino italiano raggiunga uno status socioeconomico diverso da quello dei propri genitori sono in media più basse di quelle di un coetaneo di un qualsiasi altro paese “avanzato”; il nostro non è un Paese socialmente giusto.
Le principali ragioni di questo disonorevole piazzamento in graduatoria sono da ricercarsi proprio nelle carenze del mondo della scuola. L’ampia mole di dati reperibili sul tema ci restituisce infatti un quadro allarmante. Secondo la Commissione Europea, nel 2018 l’Italia presenta una percentuale di studenti ELET (coloro che non arrivano ad ottenere un diploma di istruzione superiore o professionale) pari al 14,5% del totale, più alto di quasi tutte le altre nazioni dell’Unione e con delle allarmanti disparità distributive interne al Paese: il tasso è infatti pari al 11% nel Nord, al 19% nel Sud.
Il Rapporto Ocse 2018 in tema di “Equità nell’istruzione” dipinge una realtà scolastica emergenziale. Analizzando i risultati dei test di apprendimento “Pisa”, sottoposti ad ampi campioni di studenti, emerge il seguente dato: un 15enne svantaggiato (ovvero appartenente al primo quartile della distribuzione socioeconomica, il 25% più povero della popolazione per intenderci) ed uno avvantaggiato (il 25% più ricco) presentano in media una differenza nelle competenze scientifiche quantificabile in due anni di preparazione didattica.
La percentuale di studenti svantaggiati frequentanti un Liceo è pari al 12%, incredibilmente bassa se comparata con il 56% relativo all’intera popolazione studentesca. Come non sottolineare inoltre che il 50% degli studenti svantaggiati statisticamente finisce nel 25% di scuole peggiori del Paese, delineando una chiara tendenza alla ghettizzazione delle fasce più deboli.
Il XVII Rapporto Ecosistema Scuola di Legambiente fornisce una fotografia dell’edilizia scolastica nazionale con degli estremi di iniquità ai limiti del misurabile. Basti pensare che nel 2015 il Trentino spendeva in media per ogni scuola 101.444€ in manutenzione straordinaria, avendo solo uno 0,9% di edifici necessitanti interventi urgenti; la Calabria ne spendeva €5.030 e gli edifici che richiedevano interventi urgenti erano il 95,2% del totale. Due regioni, due realtà opposte, stesso Paese.
Le responsabilità dello Stato rispetto alla crisi dell’istruzione italiana sono palesi, ma è importante non abbandonarsi a frettolose approssimazioni e avere la lucidità di operare una fredda distinzione. Alle compagini di governo susseguitesi negli anni è imputabile innanzitutto una responsabilità “colposa”, figlia di negligenza e mancanza di visione. Ignoranti dell’anima sociale della Scuola, si sono persi in riforme sempre troppo superficiali per essere funzionali, protendendo verso modelli anglosassoni, tutti competizione e produttività.
Non hanno compreso che se un ragazzo su cinque nel Mezzogiorno non arriva al diploma, poco conta dotare di lavagne multimediali le scuole dei centri-città. Bisogna investire affinché le scuole diventino dei templi della socialità e della cultura, dei punti di riferimento per la gioventù locale. Ogni scuola d’Italia deve dotarsi di strutture idonee e arricchirsi di attività extracurriculari, lo studente deve vivere la scuola a 360 gradi, deve essere sottratto a realtà familiari e sociali spesso disagiate, strappato al circolo vizioso della povertà.
Non ci si può esimere però dal sottolineare che la colpa cessa ove inizia il dolo. La responsabilità dello Stato è indubbiamente “dolosa” quando esso di fronte ad una scuola pubblica sistematicamente sottofinanziata concede 500 milioni di euro l’anno agli istituti paritari. Non c’è giustificazione che tenga quando le disuguaglianze aumentano e lo Stato è tristemente complice. Quando ignora l’importanza della mobilità sociale, ignora la stessa Costituzione, che all’articolo 33 recita: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”.
[…] proposta che sembra funzionare, ma ha effetti ritardati, è puntare su una formazione scolastica più aperta tale da non specializzare, in maniera esagerata, un giovane. Se infatti procediamo con […]