Co-autore di questo articolo è Salvatore La Marca.
È la mezzanotte in una notte di spettri. No, non ci riferiamo a uno dei racconti del terrore di Edgar Allan Poe. Ci riferiamo a un pensiero e quindi a dei corpi, a un soggetto collettivo e quindi a dei rapporti sociali: parliamo, insomma, della sinistra, di questa categoria politica tanto citata quanto evanescente. Appena la nomini, il significato sfugge. La mezzanotte in una notte di spettri.
Perché la notte? Perché il presente è tinto di un’atmosfera notturna, in cui “tutte le vacche sono nere”. È diventato impossibile distinguere le soggettività politiche in campo, anzi, nessuna soggettività, perché tutto appare irriducibile ad un’oggettività auto-moventesi, in cui non c’è spazio per una reale trasformazione dello stato di cose presenti. Perché spettri? Perché la nostra è una realtà spettrale, il capitalismo è una visione del mondo in cui i morti (le merci, il lavoro morto) fagocitano i vivi (le persone, il lavoro vivo). Davanti a tutto ciò, la sinistra ha finito per riesumare in maniera losca la sua etimologia. Sinisteritas in latino indica qualcosa di goffo e inetto, dunque inservibile.
In realtà, crediamo che questa inettitudine derivi da un aspetto tanto infido quanto gravido di conseguenze: la sinistra ha perso sé stessa perché non riesce più a trovare la nozione di classe operaia all’interno della fabbrica post-fordista. Questa crisi comincia ben prima dell’89. Il partito comunista italiano, sul finire degli anni ’70, ha perso il bastone di appoggio, diventando un perfetto “imbecille” (nel senso etimologico di in-baculum, senza bastone), perché si ostinava a cercare la “sua” classe operaia nella fabbrica fordista, mentre una nuova accumulazione originaria, il neoliberismo, lo stava inghiottendo.
Oggi la sinistra è solo una vittima della miopia polifemica di allora. Ed è così che il pensiero debole ha infoltito questa categoria di lemmi provenienti dalla destra, sia quella liberista sia quella più conservatrice. Ed è per questo che ci siamo proposti di scrivere questo articolo, per urlare a gran voce che la classe operaia non è morta nel capitalismo del XXI secolo, ma si è radicalmente trasformata, esondando dalla fabbrica e riproducendosi nelle vie, strettoie, sottoboschi della metropoli.
Innanzitutto, classe operaia è la classe produttrice di ricchezza: non è obbligata ad indossare nel corso della storia sempre gli stessi abiti (la tuta blu), a eseguire gli stessi riti (lavoro meccanico e ripetitivo), a frequentare gli stessi luoghi (ad esempio, la Fiat di Mirafiori). Nei meandri della finanza, nei labirinti kafkiani del terzo settore, nelle reti di internet e dei social network, la classe operaia non cessa di creare plusvalore. Il neoliberismo, per riprodurre sé stesso, prende seriamente la nozione di forza lavoro, cioè “la somma di tutte le attitudini fisiche ed intellettuali esistenti nella corporeità”. Tutte, si badi: facoltà di linguaggio e pensiero, tonalità emotive, memoria, capacità di apprendimento ecc…
La forza lavoro non appartiene in solido a ciascuno di noi perché è una facoltà generica, comune, della specie umana. La ricchezza, in senso umano, del singolo è innanzitutto la propria forza lavoro: è di tutti e nessuno, ma proprio oggi, più di ieri, questo spazio relazionale è stato messo a profitto. Per capire meglio questo aspetto è necessario in via preliminare riformulare la nozione di valore-lavoro. Il cosiddetto modo di produzione fordista è caratterizzato da un tempo di lavoro ripetitivo e alienato che produce continuamente nuove merci per il mercato. Lavoro significa eminentemente ciò che Aristotele intendeva per poiesis: produzione di oggetti, in cui ciascuna operazione che scandisce il ritmo del lavoratore è definita, fin nei minimi dettagli, dallo scopo finale. Facendo un’incursione nel mondo culinario, una ricetta contiene tutti i passaggi necessari da compiere in base alla pietanza che si vuole servire.
Ora, il neoliberismo ha rivoluzionato questo modo di intendere la produzione di valore. Prendiamo in considerazione il settore terziario, la grande novità nella sfera dell’economia reale: il giovane laureato al call center, l’esperto di marketing, gli addetti alle pubbliche relazioni, il ramo della consulenza… Sono tutte testimonianze di qualcosa che non si lascia spiegare dalla produzione di merci a mezzo di merci, ma dalla produzione di comunicazione a mezzo di comunicazione.
Nel settore dei servizi bisogna essere capaci di comunicare e relazionarsi, essere morbidi al contingente e all’imprevisto; il ruolo di protagonista è assunto dal lavoratore cognitivo, cioè da colui che mette a tema la generica facoltà di linguaggio e di pensiero, colui che compie improvvisazioni e variazioni sullo spartito comune a tutti i lavoratori del terzo settore, il general intellect, che indica appunto il puro poter parlare e pensare(espressione utilizzata da Marx nei Grundrisse).
Pertanto affermiamo la crucialità della svolta linguistica in economia: nella new economy, il linguaggio, la comunicazione, attraversano strutturalmente e contemporaneamente sia la sfera dell’economia reale, sia la sfera dell’economia finanziaria: le modificazioni del mondo del lavoro e le modificazioni dei mercati finanziari costituiscono due facce della stessa medaglia e questo ci permette di ritrovare (in realtà non è mai scomparsa) la nozione di classe operaia anche nell’economia “virtuale”.
Partendo dal mondo della cosiddetta attention economy, l’economista Christian Marazzi spiega come il processo produttivo che caratterizza l’attention economy si basi sulla “forza produttiva del linguaggio”. In altre parole, si tratta di imprese che nella maggior parte dei casi domandano “attenzione”, questo fa sì che l’oggetto dello sfruttamento diventi lo stesso processo cognitivo della persona. Si pensi ai social network: spesso si tende a credere che all’interno del loro processo produttivo la forza-lavoro si concretizzi nell’azione di quella ristretta cerchia di dipendenti la cui mansione si esaurisce nella mera gestione della piattaforma.
Tuttavia, la realtà ci offre uno scenario diverso: il circuito economico di questo tipo di società che rientrano nella categoria delle cosiddette dot-com (società che sviluppano il loro principale bacino di affari attraverso l’utilizzo del web), si presenta come un circuito industriale in cui si concretizza un vero e proprio sfruttamento di massa. La principale fonte di guadagno della società Facebook Inc., per esempio, è la pubblicità.
Gli utenti che agiscono all’interno della piattaforma, mettono a disposizione informazioni cruciali relative alla propria età, alle proprie aspirazioni, ai propri interessi, alle proprie passioni, al modo in cui parlano della persona amata… Si ha allora appropriazione di tutto ciò che caratterizza il bios, la “buona vita”dell’uomo. Qui entra in gioco la forza-lavoro. Forza-lavoro vuol dire attività libera e creatrice, oltre che riproduttiva, che coinvolge la dimensione affettiva, relazionale, comunicativa, etc. Ecco ciò che Marx intende per lavoro vivo o lavoro come soggettività: lavoro è vita, è carne viva.
Nel fordismo, la forza-lavoro era sterilizzata a meccanismi stereotipati, ora la sua definizione più propria acquista smaccata visibilità nel processo produttivo. Gli utenti, mettendo a disposizione di Facebook un quadro completo della propria personalità, permettono al social network di vendere spazi pubblicitari; offrono la propria attenzione da cui si estrae valore. In altre parole, l’interazione e la comunicazione dell’utente diventano pluslavoro non remunerato dal quale Zuckerberg trae il proprio profitto, dove il tempo di produzione coincide con la vita stessa dell’uomo e quindi il plusvalore si dà come differenza tra un tempo di produzione esteso all’intero arco della giornata ed erogazione di lavoro misurato in azienda.
Un discorso molto simile può essere fatto per l’economia finanziaria, una realtà che sistematicamente tende ad essere descritta attraverso un circuito di tipo D – D’ (Denaro – Denaro’): feticismo del denaro, denaro per il denaro, senza forza-lavoro, senza quindi sfruttamento umano. Tuttavia, anche in questo caso, la realtà ci offre uno scenario più complesso. In finanza assume un ruolo centrale la nozione di comportamento imitativo nella cui determinazione è rilevante la funzione dei media che attraverso l’esaltazione dell’esuberanza irrazionale alimentano quel comportamento gregario da cui la speculazione trae i suoi frutti.
Più precisamente per guadagnare in borsa non occorre perdersi nell’analisi delle società quotate, piuttosto bisogna individuare per tempo quei titoli su cui si sta per precipitare la folla così da incassare un guadagno in conto capitale (capital gain nel gergo finanziario). Keynes, nel capitolo XII della Teoria generale, spiega proprio che gli investimenti in borsa sono il risultato della psicologia di massa e di convenzioni linguistiche. In altre parole, accade che le credenze hanno un ruolo creatore, e lo speculatore finanziario è colui il quale sfrutta la forza performativa del linguaggio (che ha il potere di attirare l’attenzione) da cui si riesce a determinare quel comportamento imitativo che diviene oggetto di sfruttamento. In Borsa si fanno cose, cioè profitti e speculazioni, attraverso l’uso delle parole.
Il marketing, le speculazioni finanziarie, i social newtork, si appropriano dei sogni, emozioni, desideri, discorsi, capacità intellettuali del singolo che nascono e si realizzano solo attraverso la relazione sociale. Il capitalismo ha fatto di questa ricchezza innanzitutto umana uno spazio innanzitutto da colonizzare, cercando continuamente di quantificare questa ricchezza sociale assolutamente inquantificabile e indeterminata, meditando sulla morte e creando spettri. Lotta politica, oggi, significa riappropriarci di noi stessi e della nostra singolarità, “noi-classe operaia” produttrice di profitto per i pochi, rivendicando la forza sovversiva dei nostri “stati d’animo”, cantando la vita.