di Alessandro Bonetti e Pablo Mileni
Abbiamo avuto molto piacere nel leggere un interessante articolo di Paolo Barone pubblicato sul giornale studentesco “Tra i Leoni” (numero 85 - novembre 2018) e intitolato “La rivoluzione culturale europea: lettera di un nato nel 2000”.
Il nostro collega parla con passione della necessità di un’anima culturale europea per una completa integrazione politica delle nazioni facenti parte dell’Unione. L’obiettivo è quello di creare un terreno fertile per l’affermazione degli Stati Uniti d’Europa.
Pur apprezzando l’entusiasmo dell’autore, non siamo d’accordo su molte opinioni contenute nell’articolo. Con questo pezzo vogliamo dunque esprimere la nostra visione.
La prima questione che vogliamo analizzare riguarda l’identità. L’autore sembra pensare che l’esistenza di confini e di identità nazionali e locali forti possa essere un ostacolo alla costruzione di un’identità europea.
Ma è un dogma credere che “confini e muri tra comunità piccole” portino a “vivere una vita a metà, piena di odio per i nostri vicini”. Il nostro collega non dà una spiegazione chiara di queste sue affermazioni e del perché l’annullamento dei confini sia un bene, anzi con esagerato semplicismo e una certa retorica assume che l’esistenza di essi sia di per sé un male. Noi ribattiamo invece che i confini non escludono scambi fra culture e, come afferma anche l’intellettuale Régis Debray, rappresentano identità e ricchezza. Essi infatti sono sia dei limiti all’interno dei quali le culture si possono sviluppare sia delle porte attraverso cui esse possono comunicare.
Crediamo inoltre che l’identità europea non sia qualcosa di astratto e omogeneo, ma un mosaico di differenti culture, tra loro dialoganti e magari anche in conflitto. Non pensiamo che una fantomatica anima culturale europea si possa creare come in laboratorio limando i contrasti esistenti. Così si giunge solo all’appiattimento e all’omologazione, della quale sembra vittima lo stesso autore, il quale sostiene che ascoltare la stessa musica e giocare agli stessi videogiochi sia esempio di una vera identità comune. Un senso di comunità non si può certo basare su queste cose! Esso deriva dalla coscienza di una storia condivisa e da radici comuni, cosa della quale il nostro collega non sembra cosciente, come quando afferma: “sopra ogni altra cosa, non sappiamo cosa ci fosse prima”.
Altro punto che desideriamo sottolineare è che identità europea non significa necessariamente identità dell’Unione Europea. La prima, infatti, prescinde dall’esistenza di una struttura politica comune. Pensiamo per esempio a Goethe, il quale viaggiava in Italia quando ancora l’Erasmus non esisteva ed era comunque pienamente cosciente del suo essere europeo e allo stesso tempo della sua forte identità tedesca.
Il progetto che i sedicenti europeisti propugnano è quello di calare dall’alto una cultura comune, quando è evidente che essa non si può creare artificialmente “in vitro”, ma è frutto della stratificazione e della sedimentazione di lunghi processi storici e sociali. Il rischio è esacerbare le fratture fra élite e popolo, creando quella distanza dal sentimento comune che già oggi vediamo dividere le nostre società.
Nel corso dell’articolo, inoltre, l’autore parla di una battaglia in atto fra populisti ed europeisti. Oltre a non approfondire le cause economiche e sociali di questo scontro, egli afferma che perdere questa battaglia (ossia lasciarla vincere ai populisti) “significa tornare inevitabilmente allo Stato Nazione. Alla guerra”.
Innanzitutto, agitando queste paure, il nostro collega dimostra di comportarsi egli stesso da populista. Inoltre, proprio non capiamo questo binomio Stato Nazione – guerra, binomio che storicamente non è accurato. Infatti, spesso le guerre nascono da imperi più che da Stati Nazione (vedasi la Prima Guerra Mondiale, iniziata dagli Imperi Centrali) o da Stati Nazione che vogliono diventare imperi (vedasi la Seconda Guerra Mondiale, iniziata dal Terzo Reich che cercava il suo lebensraum). Peraltro, non si può trascurare che la lunga pace vissuta dall’Europa negli ultimi settanta anni sia merito della Nato più che dell’Unione Europea.
Infine, osiamo dire che la grandezza dell’Europa viene proprio dagli Stati Nazione, per una specifica ragione: la diversità istituzionale e la frammentazione politica hanno stimolato nel corso della storia la competizione per lo sviluppo, impedendo il conformismo istituzionale (come sottolineato da studiosi come Rodrik).
Dobbiamo dare merito al nostro collega della sua intenzione di liberarsi dall’europeismo acritico. Tuttavia, per raggiungere questo obiettivo e costruire un europeismo fecondo, non si possono trascurare le criticità fondamentali del progetto europeo, i problemi veri, la cui soluzione è precondizione della rivoluzione culturale auspicata nell’articolo. L’autore non affronta questi nodi concettuali e si limita ad accusare il fantomatico mostro del populismo. Ma il populismo non è la causa dei problemi, è solo una reazione, dovuta a ragioni sia identitarie sia socioeconomiche.
Quali sono i problemi di cui stiamo parlando? Innanzitutto, le tare congenite al progetto europeo, economicamente sbilanciato a favore di certe nazioni e a sfavore di altre, e le conseguenti criticità economiche.
È vero che “dare un’anima politica significa dare un’anima culturale”, ma crediamo che oggi la priorità sia affrontare i problemi economici da cui sono scaturite le fratture degli ultimi anni, per evitare che esse continuino ad approfondirsi in futuro.
Una domanda su cui sarebbe interessante dibattere: il modello di sviluppo smaccatamente liberista delineato nei trattati europei (per esempio con il divieto di aiuto statale alle imprese) può adattarsi a ogni Paese?
Inoltre, nell’articolo non si accenna minimamente ai risvolti del mercato comune e della moneta unica, che sono centrali nell’architettura europea ma che hanno mostrato ampi segni di disfunzionalità.
Non è nelle intenzioni di questa replica offrire soluzioni complete ed esaurienti a tali problemi. Vogliamo solo mostrare la rilevanza che queste domande dovrebbero avere in una trattazione sull’attuale stato dell’UE. Se a livello politico non vi si danno risposte, il malcontento verso il progetto europeo è destinato a crescere e ogni discorso sull’anima culturale che dovrebbe agire da collante è condannato a rimanere lettera morta.
Articolo originariamente pubblicato su L'Eco del Bunker