La crisi sanitaria che stiamo vivendo ha prodotto, tra le altre, una conseguenza indiretta non irrilevante: un consenso pressoché unanime, e difficile da ricordare in passato, tra gli economisti sulle misure di politica economica da adottare. Ossia, sulla necessità di un massiccio intervento fiscale da parte dei governi per sostenere famiglie e imprese, i cui flussi di reddito sono fortemente ridotti o azzerati dal lockdown, per evitare che lo shock abbia delle conseguenze permanenti sullo stato di salute dell’economia. Tuttavia, le divisioni riemergono quando si passa al problema cruciale di come finanziare questo intervento. Tra le proposte messe sul tavolo, una in particolare, la cosiddetta “helicopter money”, è oggetto di numerosi fraintendimenti che ne impediscono una corretta valutazione nel dibattito pubblico.
Per iniziare a sciogliere questi fraintendimenti, bisogna partire dal lessico. Le parole sono importanti, e un loro uso impreciso, generico o distorto spesso rivela (e al contempo alimenta) una confusione concettuale di fondo. L’espressione “helicopter money” suggerisce l’idea di una distribuzione di moneta “a pioggia”, per l’appunto come se un elicottero sorvolasse le nostre città e facesse piovere banconote dal cielo. A sua volta, quest’immagine è logicamente connessa alla presentazione della misura come opzione estrema, mai sperimentata, quasi al limite del folklore. Del resto, chi mai potrebbe considerare appropriato far piovere i soldi dal cielo, con il rischio magari che cadano nel giardino di una delle ville di Berlusconi, invece che nel cortile del disoccupato che sta morendo di fame?
La metafora dell’elicottero è in realtà fuorviante. Esiste un modo molto semplice e pragmatico per fare “helicopter money”: la monetizzazione del deficit pubblico. Monetizzare il deficit vuol dire che il governo, nel caso in cui spenda più di quanto raccolga con le tasse, finanzi il disavanzo non chiedendo un prestito ai mercati finanziari, come abitualmente avviene, ma grazie alla base monetaria creata dalla banca centrale. Nel caso specifico, vuol dire che i trasferimenti a famiglie e imprese possono essere finanziati direttamente dalla banca centrale, che accredita l’importo necessario sul conto del governo oppure, il che è lo stesso, compra dal governo titoli di debito per lo stesso importo, per poi cancellarli subito dopo dal suo bilancio.
Questa politica è talmente convenzionale che la si può ritrovare nei manuali di macroeconomia. E senza bisogno di scomodare scuole eterodosse, Modern Monetary Theory o quant’altro. Ad esempio, in “Macroeconomia. Una prospettiva europea” (Blanchard, Amighini, Giavazzi), l’edizione italiana di uno dei testi di macroeconomia più diffusi al mondo, si legge che “il governo può finanziare il suo disavanzo in due modi alternativi. Può prendere a prestito […]. Ma di fatto può anche fare una cosa che nessuno di noi può fare: può finanziare il disavanzo creando moneta.”
E il motivo per cui i libri di macroeconomia ne parlano è che, storicamente, una delle prerogative riconosciute dello Stato sovrano moderno (come si viene a configurare con la pace di Westfalia del 1648) è proprio quella di creare moneta a sua discrezione. Lo ha recentemente ricordato Jordi Galí in un suo intervento su VoxEU (per chi non lo conoscesse, si tratta di uno degli economisti che hanno contribuito a sviluppare il modello New Keynesian, allo stato attuale il modello standard in macroeconomia):
Fortunately, there is an alternative to a strategy based on higher taxes and/or more government debt in order to finance such an emergency fiscal programme […]– namely, direct, unrepayable funding by the central bank of the additional fiscal transfers deemed necessary.
Attualmente, invece, le principali banche centrali del mondo non finanziano direttamente il governo. Nell’eurozona, lo statuto della BCE vieta esplicitamente la monetizzazione del deficit. La ragione è che, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, si è progressivamente affermato il principio dell’indipendenza delle banche centrali.
Si è cioè costituito nella maggior parte dei paesi un vero e proprio “potere monetario” autonomo e distinto dagli altri. La teoria economica ha sostenuto questa decisione (che rimane, in ogni caso, una decisione politica) con l’idea che l’indipendenza sia necessaria alla banca centrale per essere credibile nel suo mandato sul controllo dell’inflazione, e di conseguenza per “ancorare” le aspettative degli operatori economici. L’ancoraggio delle aspettative è a sua volta ritenuto un fattore cruciale nel controllo stesso dell’inflazione, in quanto il livello dei prezzi oggi dipende non solo dalle condizioni correnti ma anche dalle aspettative degli agenti economici sul livello dei prezzi nel futuro. La monetizzazione del debito violerebbe di fatto questa indipendenza, assoggettando la politica monetaria all’azione del governo.
Ma tutto l’apparato teorico e pratico del central banking è stato già messo fortemente in discussione con la crisi finanziaria del 2007-2008. Le banche centrali sono state costrette ad interventi ritenuti fino a poco prima impensabili, tra i quali spiccano i programmi di acquisto massiccio di debito pubblico.
Il fatto che questi acquisti siano avvenuti sul mercato secondario salvaguarda formalmente il principio dell’indipendenza, ma non cambia dal punto di vista macroeconomico la sostanza dell’operazione. Che, di fatto, equivale ad un finanziamento monetario indiretto della banca centrale al governo, per due motivi: primo, perché abbassa il tasso di interesse sul debito pubblico, aumentando lo spazio fiscale, e secondo perché gli utili, e quindi gli interessi che il governo paga sui titoli acquistati dalla banca centrale, vengono da questa ritrasferiti (al netto degli accantonamenti) al governo stesso (per esempio l’anno scorso la Banca d’Italia, che acquista titoli italiani per conto della BCE, ha trasferito allo Stato italiano 7,8 miliardi di utili netti), per cui di fatto il governo su quei titoli paga un interesse nullo.
Del resto, benché la BCE abbia continuato a ripetere in questi anni che le sue politiche espansive erano esclusivamente finalizzate al raggiungimento del target sull’inflazione, è largamente riconosciuto che, mentre gli effetti sull’inflazione sono stati piuttosto modesti, il quantitative easing è servito soprattutto a sostenere i debiti pubblici dei paesi periferici dell’Eurozona (tanto è vero che è stato inizialmente criticato proprio con l’argomento che con esso la BCE stesse superando i limiti del suo mandato).
L’unico limite alla creazione monetaria e, quindi, alla monetizzazione del debito, è in ultima istanza costituito dall’inflazione. Che una sistematica monetizzazione delle spese del governo sia inflazionistica, con il rischio di sfociare nell’iperinflazione, è un dato pacifico. Ma l’inflazione è un fenomeno complesso e non è, con buona pace di Milton Friedman, un fenomeno esclusivamente monetario. Si può sintetizzare questa complessità dicendo che il livello aggregato dei prezzi dipende dal rapporto tra domanda e offerta aggregata (così come il prezzo di un singolo bene dipende dal rapporto tra la sua domanda e la sua offerta).
Da un lato, ciò implica che, benché nella storia recente dei paesi avanzati l’inflazione si sia mantenuta ad un livello molto basso, in alcuni casi addirittura negativo, la crisi attuale ne aumenta in realtà il rischio, dal momento che l’offerta aggregata è fisicamente limitata (in molti settori azzerata) dal lockdown. Ma dall’altro lato ciò suggerisce che ogni sforzo condotto oggi al fine di evitare una perdita permanente di capacità produttiva, cioè una riduzione permanente dell’offerta aggregata, riduce il rischio di una spinta inflazionistica nel momento in cui riapriremo i battenti. Pertanto, se nel breve periodo la monetizzazione rischia di produrre inflazione, nel medio periodo potrebbe addirittura ridurla, nella misura in cui sia efficace nel sostenere le imprese durante la crisi, evitandone (o almeno limitandone) la sparizione.
Condivisibile in toto,la teoria del controllo dell’inflazione sulla base della Offerta di moneta rigidamente(e non discrezionalmente) controllata dalle Banche centrali deriva,mi sembra,dalla teoria delle aspettative razionali di Robert Lucas che è stata poi riversata nella “teoria della inflazione attesa”: in pratica se si monetizza si suppone che gli operatori economici cominciano ad aumentare i prezzi,ed i salari(sindacati),innescando la spirale prezzi-salari.