Il pensiero di Ernesto Laclau, filosofo argentino e teorico progressista del populismo, ha attirato nel corso dei decenni un numero smisurato di critiche provenienti sia dal mondo liberaldemocratico sia dal mondo del marxismo ortodosso. Ciò si è potuto osservare immediatamente dopo la pubblicazione di Hegemony and Socialist Strategy (1985), ma è una situazione che continua ancora oggi, nel tentativo di screditare il populismo laclauiano come legittima logica politica. Si può dire che in parte l’egemonia liberale abbia raggiunto il suo obiettivo: ridurre il “populismo”, da concetto politico, al concetto semantico di “demagogia”.
Riferendoci a una nota disputa tra Slavoj Zizek ed Ernesto Laclau sulla disintegrazione dell’essenzialismo proprio del marxismo tradizionale possiamo fare diverse considerazioni. Francamente, potete immaginare da che parte sto in questo confronto – cioè dalla parte di Laclau.
Nonostante molti dei lavori di Zizek siano a dir poco eccellenti, il suo fraintendimento nei confronti della ragion populista fa capire come sia difficile per un marxista, pur sotto l’influenza lacaniana, liberarsi dal giogo dell’essenzialismo. L’essenzialismo è quell’idea, appunto, secondo la quale gli attori sociali siano determinati a priori. Pertanto il mio nascere in un determinato luogo e in un certo censo mi dovrebbe portare a votare “quella cosa” che rappresenta il gruppo a cui appartengo.
In realtà però non esiste un gruppo-cosa determinato a priori. L’identificazione collettiva è un fatto che si costruisce tramite volontà collettive su un terreno momentaneo, sancito su coordinate spazio-temporali malleabili. In Italia milioni di persone hanno votato Berlusconi, poi Renzi, poi Movimento Cinque Stelle ed infine Salvini. Se assumiamo la prospettiva essenzialista non riusciamo davvero a comprendere cosa sia successo e stia succedendo.
L’essenzialismo di Zizek non accetta che la pluralità della lotta egemonica abbia elementi eguali. Sostiene, difatti, che le lotte plurali – siano esse economiche, di genere, ecologiche, etniche – stiano sotto ad una lotta (quella di classe) che ne sovradetermina segretamente l’orizzonte. Ed essa vede elementi determinati a priori, senza che ci sia il substrato di fondamenti retorici. In questo caso noi potremmo accedere alla Cosa in quanto tale, cioè ad una totalità.
L’obiettivo di Zizek è mostrare come esista una sorta di dimensione che si pone su un piano gerarchico superiore: una dimensione “economica”, che, se affrontata ed analizzata in maniera adeguata, contiene necessariamente tutte le altre contraddizioni sociali. Laclau fa notare come Zizek non abbia avuto nemmeno il bisogno di questo discorso per dimostrare che l’economia gioca un ruolo preponderante nelle società capitalistiche.
Certo, nessuno ha mai negato questa importanza. Ciò non toglie che l’economia non può essere un’istanza omogenea ed autodefinente, come fondamento primo della società e con tratti hegeliani e trascendentali. Secondo Laclau, è stucchevole il fatto che un lacaniano, uno che dovrebbe aver compreso il ruolo degli affetti collettivi, rimanga per certi versi ancorato all’hegelismo. Se assumiamo il potere delle passioni, le stesse passioni poi non servono a nulla se si nega l’"objet petit a", ossia la parte che aspira ad essere il Tutto.
Per Zizek ci può essere solo il Tutto, perché è possibile arrivare direttamente alla Cosa. Ma così si confondono i concetti di parzialità e di gradualità. Se il problema per Zizek sta in quello che Laclau chiama “apriorismo”, che deriverebbe dalla logica dell’hegelismo, esiste una visione opposta, ma altrettanto problematica: Laclau riporta infatti anche il concetto di moltitudine di Michael Hardt e Toni Negri.
Da una parte in Zizek viene a mancare la logica populista, fondata necessariamente su una catena equivalenziale di domande molteplici e plurali, con lo scopo di articolare un conflitto. In Hardt e Negri invece questa diversità di domande conflittuali esiste: essa non è subordinata alla Cosa, al Tutto o ad una Totalitá, ma le stesse domande sono libere di muoversi senza alcun ruolo politico nel dirigere il conflitto.
Baruch Spinoza pone una particolare enfasi sul concetto di conatus, che Hardt e Negri legano alla nozione di moltitudine, svincolandola però appunto da qualsiasi articolazione politica.
Hardt e Negri sostengono che non serva proprio l’articolazione politica perché la moltitudine spontanea è già “Contro”. Ma non è assolutamente vero che la gente è solo “contro”, ma è anche a sostegno di determinate cose. E non è nemmeno per nulla vero che questo Contro si possa espandere spontaneamente.
Se davvero esiste una tendenza naturale alla rivolta, non è necessaria alcuna costruzione politica di un soggetto “di rivolta”: Hardt e Negri estremizzando alcuni tratti dello spinozismo eliminano dunque la Politica, quasi col sostituire al conatus “politico” un conatus “divino”. Il conatus autosufficiente diventa la volontà di Dio, pur riconoscendo una eterogeneità delle masse (che in Zizek sembra decisamente venire meno). Ciascun soggetto in rivolta è in ribellione verso l’alto, verso il potente, ma esulando dall’articolazione delle singole domande: potete notare come manchi un nesso orizzontale credibile nella moltitudine.
Quello che voglio sostenere in parole semplici è che il conflitto ha bisogno dell’articolazione politica per espletarsi. Non c’è espressione del conflitto in maniera casuale e trascendentale. Non vi è una naturale tendenza all’opposizione perenne. Le catene equivalenziali non compaiono spontaneamente, senza una dirigenza politica (e sottolineo “politica”!). Prendiamo il caso del partito spagnolo Vox, forza populista reazionaria: non vi è alcun motivo extra-politico per credere in una spontanea correlazione tra anticomunismo ed antiseparatismo, senza un discorso retorico capace di plasmare radicalmente il senso comune dell’interlocutore, sotto un “significante vuoto”, ovvero un simbolo vago e fluttuante.
La visione di Laclau è invece più simile a quella di Rancière, sostenitore dell’eventuale natura retorica e non sociobiologica del “popolo”. Ciò aprirebbe la strada alla costruzione di un’egemonia socialista, dove i protagonisti vengono definiti non in termini di classe, ma in termini di volontà collettive (in realtà poi in certi punti Rancière sembra non completamente disfarsi dell’essenzialismo, ma la sua lucidità mentale è comunque lampante per la comprensione della logica populista). Non esiste un’identità già data, ma sempre e solo un’identificazione: è la strategia “populista” a spingere verso di essa, a plasmare il senso comune. Non esiste, perciò, un popolo “di destra” o un popolo di “sinistra” già fornito a tavolino.
Per quanto riguarda la necessità di un’articolazione politica, già Aristotele nella Politeia individuava la democrazia proprio nella Politica, anzi essa doveva essere la logica politica. Ma se assumiamo da La Ragione populista che essa consiste nel Populismo, ossia in una plebs che aspira ad essere populus, una parte che reclama di essere un tutto, allora dalle affermazioni di Aristotele e di Laclau ricaveremmo che la democrazia è proprio il populismo.
Per proprietà commutativa Chantal Mouffe direbbe che il populismo è la linfa vitale della democrazia pluralistica, che oggi si trova in declino a causa dei mali della postpolitica liberale. Il populismo non è un regime, non è un’ideologia politica: è una strategia che identifica un Noi (che per esistere ha bisogno di un Loro) e che può tanto minare (Salvini, Le Pen) quanto estendere (Momentum, Occupy Wall Street) il tenore democratico.
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La democrazia liberale è in crisi da tempo, il populismo di questi anni ha solo amplificato ed evidenziato la crisi del modello democratico-liberale così come si è lentamente costituito negli Stati Moderni a partire dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese. Il problema è che, al momento, abbiamo il modello liberal-democratico in crisi ma non sappiamo con che cosa sostituirlo!