Nonostante la crisi sanitaria abbia costretto larga parte della popolazione allo smart working, spesso vengono dimenticati coloro che da diversi anni sono impiegati in un lavoro online all’interno di una rete di distribuzione globale. La natura di questi impieghi rende difficile valutare il numero complessivo dei lavoratori della gig o sharing economy su scala globale, ma solo negli Stati Uniti questi erano 55 milioni nel 2017.
Che cos’è la gig economy?
Con gig economy si intende una rete globale di persone che non risultano dipendenti di nessuna impresa, ma piuttosto forniscono, a seconda delle richieste dei clienti, una serie di competenze specifiche. I compiti dei lavoratori in questo settore variano dai freelance nel campo dell’informatica, alla semplice catalogazione svolta per i motori di ricerca. Piattaforme come Uber o TaskRabbit hanno contribuito alla crescita esponenziale della gig economy. Se, da un lato, questa economia si basa soprattutto su lavoratori essenziali come riders, tassisti e altri profili scarsamente qualificati, dall’altro coinvolge anche lavoratori del settore tecnologico che rivendicano la libertà di poter scegliere i propri progetti e clienti: probabilmente questo è un riflesso della moda del lavoro etico.
La gig economy non riguarda un solo settore. Secondo il Bureau of Labour Statistics i settori più coinvolti sono quelli dell’arte e design, costruzioni e estrazione, tecnologia dell’informazione, media e comunicazione, trasporti e logistica.
La sharing economy si è potuta imporre anche a causa della rapida diffusione della tecnologia, ma soprattutto per il costante desiderio delle imprese di tagliare i costi. L’esternalizzazione delle mansioni, essenziali e non, ha permesso alle società di realizzare efficacemente questo intento.
Le sfide
A questa interminabile ricerca di minori costi e maggiori profitti corrispondono, soprattutto per i lavoratori della gig economy, una serie di sfide. La principale è la mancanza di qualsiasi tipo di regolamentazione che protegga i lavoratori, i quali, non essendo considerati lavoratori subordinati, perdono le tutele basilari come l’assicurazione sanitaria e la pensione.
Inoltre non ci sono norme che limitino l’orario di lavoro, problema particolarmente sentito per riders e drivers. Con l’eccezione del salario minimo, non esistono leggi sulla retribuzione. Più in generale, non esiste nemmeno una definizione ufficiale di gig workers. In questo contesto è quindi imperativo implementare un sistema regolatorio per tutelare i diritti dei sempre più numerosi lavoratori del settore.
Molti ambiti della sharing economy si caratterizzano, poi, per una spiccata unilateralità nei rapporti.
I contratti stipulati con le società non sono negoziabili e non prendono in considerazione il punto di vista dei lavoratori. Il sistema di compensazione di Zomato per i suoi fattorini oppure di Uber per i suoi drivers, per esempio, è esclusivamente determinato dalle aziende e non è contestabile dai lavoratori. Questa totale assenza di capacità negoziale da parte del personale porta le società a commettere abusi di potere, così come recentemente accaduto in India, dove i fattorini di Zomato e Swiggy (una app di food delivery) sono scesi in piazza contro la nuova strutturazione dei metodi di pagamento.
Questi contratti spesso contengono clausole che danno totale discrezionalità alle aziende sullo stato del rapporto di lavoro. L’ “accordo” stipulato da Amazon Mechanical Turk garantisce alla compagnia il diritto di sospendere qualsiasi account “per qualsiasi ragione, a nostra esclusiva discrezione”. Zomato e Swiggy hanno sospeso gli account inattivi durante gli scioperi indiani già citati senza che vi fosse alcuna possibilità di ricorso contro questa decisione.
Nella gig economy la collettivizzazione è pressoché impossibile e questo rappresenta un ulteriore limite alla già debole capacità negoziale dei lavoratori. La scarsa interazione tra i lavoratori, con l’eccezione di limitate aree geografiche, complica terribilmente l’aggregazione dei lavoratori stessi per difendere i propri diritti. Ciononostante, recentemente si sono registrati alcuni progressi in questo ambito e ci si aspetta che la diffusione della gig economy possa accompagnarsi alla nascita di nuovi sindacati.
Un altro problema causato dalla mancanza di regolamentazione del settore è quello del lavoro non retribuito o con retribuzioni inferiori a quelle stabilite. Il problema del furto salariale è estremamente diffuso tra i freelance e spesso le vittime non hanno nessuna possibilità di ricorso.
Dove ci sono stati tentativi di legiferazione in merito, le società, vedendo minacciato il loro sistema di sfruttamento, hanno risposto con una ferma opposizione ad ogni proposta di legge. In California, il referendum sulla “Proposition 22” ha abrogato una legge statale che riconosceva la subordinazione nel rapporto di lavoro per gli app based workers. La campagna a favore della Proposition è stata portata avanti da Doordash e Instacart che hanno incollato sugli zaini dei loro riders adesivi “Sì alla 22”.
Questioni di genere e gig economy
C’è chi confida nel fatto che l’ascesa della gig economy porterà a una riduzione del divario di genere in termini di occupazione e salari. Tuttavia, vi sono evidenze empiriche che spiegano come nel settore si verifichino già situazioni di discriminazione di genere sul piano dei salari. Sebbene alcuni prevedano che un certo livello di anonimato possa garantire la parità di salario tra generi, questa premessa non corrisponde a verità poiché la questione dei differenziali salariali non dovrebbe essere connessa dal fatto che ogni persona debba ricevere la stessa paga a parità di lavoro o che il datore non tenga particolarmente in considerazione di assumere una donna. Al di là di queste precisazioni, esistono studi che dimostrano come, anche in assenza di un’etichetta di genere, nomi che suonano vagamente femminili e foto profilo che ritraggano figure femminili sono associate a un salario più basso.
Sebbene non ci siano dati empirici relativi alla partecipazione lavorativa in base al genere, gli effetti attesi non sono rilevabili. A tal proposito, una componente determinante è costituita dal fatto che nella gig economy le donne rappresentano per lo più percettori di reddito secondario e, quando l’esigenza di questa fonte di reddito viene meno, il tasso di partecipazione delle donne diminuisce. Un’altra componente non trascurabile, soprattutto nei Paesi emergenti, è che il divario digitale colpisce maggiormente le donne. L’impossibilità di accedere alla rete comporta un abbassamento più evidente di quanto previsto del tasso di partecipazione femminile.
La legislazione in vigore
Oltre alla California, altri tre Stati - New York, New Jersey e Illinois - hanno tentato di attuare provvedimenti legislativi riguardanti lo status dei lavoratori della gig economy negli Stati Uniti. Tali atti legislativi danno sostanza a un esperimento volto a riconoscere lo status di lavoratori dipendenti ad alcune categorie come i responsabili delle consegne effettuate tramite app e gli autisti a chiamata. Si tratta di tentativi positivi di regolamentazione, ma non tengono conto del settore freelance. La questione, come per la maggior parte della legislazione negli Stati Uniti, è che questi avanzamenti si sono concretizzati in Stati a maggioranza democratica e una vasto numero di aree del Paese vengono esclusi dai vantaggi dei provvedimenti. In più, la lobby neoliberal ha un gran peso in campo economico, rendendo difficile attuare qualsiasi misura di tale segno nell’ottica di ribaltare l’intervento della California.
L’Unione europea ha attuato dei provvedimenti legislativi lo scorso anno atti a salvaguardare i diritti di lavoratori dipendenti in “forme atipiche di occupazione”. Questa riforma ha introdotto livelli minimi di tutele rafforzate per tutti i lavoratori e la Commissione europea ha annunciato una mossa finalizzata a stipulare contratti collettivi eludendo le norme sulla competizione e sull’antitrust. La decisione incentrata sui contratti collettivi segnerà una vera svolta e risulterà ben accetta, ma la legislazione in materia del 2019 appare veramente deludente. La normativa sul tema in gran parte dei Paesi dell’Unione è bloccata sulla distinzione tra lavoratori dipendenti o non dipendenti e non v’è stato nessun cambiamento nel senso di ampliare la definizione di “impiegato” o di creare una nuova categoria per i lavoratori della gig economy.
In Asia, non esiste pressoché nessun genere di legislazione volta a tutelare i lavoratori della gig economy. Il governo della Malesia ha annunciato interventi finalizzati alla regolamentazione del settore di mercato nel corso dell’anno corrente, ma, al di là di questa dichiarazione di intenti, c’è stato un confronto limitato tra policy-maker sul tema. Questa forma di inerzia ha suscitato un moto di reazione da parte di sindacati e iniziative collettive nell’Asia meridionale e Sud-orientale a difesa della sicurezza sociale dei lavoratori svantaggiati.
Se ciò non bastasse, i lavoratori devono confrontarsi già con questioni impellenti come la scarsità di installazioni che consentano l’erogazione dei servizi della gig economy. Ad esempio, gli autisti a chiamata a Ovest possiedono generalmente il proprio veicolo, mentre molti tendono ad affittare il mezzo di trasporto dal parco auto delle agenzie di taxi.
Prospettive future
Alla luce di quanto detto, esiste un margine sostanziale per l’implementazione di riforme nell’ambito della gig economy da colmare al più presto. Esistono diversi modi attraverso i quali conseguire questo obiettivo. La soluzione più agevole per i legislatori sarebbe restituire validità e rafforzare la legislazione in materia di lavoro già in vigore al fine di estenderne l’efficacia agli operatori della gig economy. Cionondimeno, quest’operazione tralascia le criticità delle norme legislative vigenti in molti Paesi e lascia irrisolte delle ambiguità circa le distinzioni in termini di natura delle prestazioni lavorative. Peraltro, questa estensione della platea di destinatari sarà verosimilmente possibile solo una volta che saranno giunte a termine le controversie e i processi di revisione della legislazione attuale.
La seconda opzione è, come è stato fatto negli Stati Uniti, concepire un esame di rilevazione dei dati che consenta di ampliare l’accezione del termine “lavoratore impiegato” agli operatori della gig economy. Di conseguenza, tutele e diritti che riguardano i lavoratori legalmente riconosciuti e tradizionali sarebbero estese ai suddetti operatori. Questo permetterebbe di stipulare contratti collettivi, rimuovendo così il bisogno di eludere le norme antitrust. Egualmente, il concetto di “datore di lavoro” può essere ampliato e ridefinito in base ai soggetti su cui ricade la responsabilità di garantire i servizi di previdenza sociale.
Esiste anche l’opzione di creare una nuova categoria di lavoratori indipendenti in campo economico. Data la natura peculiare della gig economy, si potrebbe sostenere che da una nuova legislazione che disciplini le relazioni tra datori di lavoro e lavoratori deriverebbero benefici reciproci. In ogni caso, questo potrebbe portare ad atteggiamenti volti a sottrarsi alle responsabilità connesse alla normativa, col risultato che le aziende proverebbero a includere quanti più lavoratori possibili nella categoria di “non dipendenti”.
Esiste anche la possibilità di ristrutturare l’intero sistema economico. Ovvero, attraverso un intervento evidentemente radicale, si potrebbero attuare dei provvedimenti legislativi che tutelino i diritti di tutti i lavoratori e non dei soli dipendenti. Non è una soluzione così inverosimile come si pensa se si tiene conto della crescita esorbitante che si prevede nel campo della gig economy.
Tale produzione normativa richiederebbe uno sforzo considerevole e un notevole grado di precisione, necessitando, inoltre, di una ridefinizione dei connotati di ogni categoria lavorativa.
Qualunque sia la strada intrapresa dai legislatori, resta imperativo il fatto che le riforme riguardanti la gig economy debbano essere realizzate in modo celere. In gioco vi sono i diritti di milioni di persone ed è necessario porre al più presto rimedio alle disuguaglianze causate.
Articolo originariamente pubblicato su CrossfireKM e tradotto da Francesco Laureti e Andrea Maioli.