Il Trattato di Maastricht è l’atto giuridico che ha dato vita all’Unione europea. Nella sua elaborazione, terminata nel 1992, sfociarono i decenni di dibattito del secondo dopoguerra su come costruire un’Europa unita.
Gli obiettivi dell’Unione sono rintracciabili all’articolo 3 dell’accordo1Consultabile qui nella versione consolidata, noto formalmente come Trattato sull’Unione europea (TUE). Secondo questo articolo, il fine ultimo a cui l’Unione deve tendere è “promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli”. All’articolo 2, leggiamo più specificamente che “l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà e della democrazia”.
Come fa l’Ue a presidiare questi valori?
L’idea di fondo su cui si basava il progetto di integrazione europea era che la creazione di un mercato comune tra i vari Stati membri avrebbe risolto i problemi occupazionali e avrebbe garantito un’allocazione ottimale dei capitali e delle risorse. Capitali, persone (“fisiche” e “giuridiche”), merci e servizi, liberi da restrizioni e controlli alle frontiere, si sarebbero spostati diffondendo benessere e opportunità di lavoro.
Sempre al secondo articolo, il paragrafo 3 recita che “l’Unione instaura un mercato interno”, che “comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi” (art.26.2 TFUE2Nella prima versione del Trattato di Maastricht si leggeva che il mercato interno doveva essere "caratterizzato dall'eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali". Questa parte fu poi incorporata dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (in sigla TFUE)).
Queste libertà economiche vengono definite “fondamentali”. Come mai? Perché le cosiddette “quattro libertà” “devono essere considerate alla stregua di veri e propri diritti fondamentali, che devono - come tali - essere garantite ai singoli individui”1: una scelta politica.
Era inevitabile che, nei decenni successivi, tali “libertà fondamentali” si scontrassero con i diritti sociali conquistati dai cittadini europei. Quello che colpisce, tuttavia, è che la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, quando è stata chiamata a risolvere questi contrasti, non ha scelto di effettuare un bilanciamento, ma di comprimere il diritto sociale, che così “diviene un diritto non più assoluto ma flessibile e plasmabile alle esigenze del mercato”2. È proprio in tal senso che la Corte si è pronunciata nelle sentenze Viking, Laval e Bundeskerei.
Nel caso Viking il diritto di sciopero entrava in contrasto con il diritto di stabilimento. Il sindacato dei pescatori aveva bloccato l’attività di una compagnia finlandese, per impedire che, per abbattere i costi, iscrivesse un battello nel registro navale di un altro Stato membro. Nel caso Laval la questione era simile, con una società lettone che voleva eseguire un appalto di lavori sul territorio svedese e il sindacato locale che ostacolava tale operazione. In entrambi i casi, la Corte di Giustizia ha compresso il diritto sociale a favore della libertà economica.
Nel caso Bundeskerei, invece, l’oggetto del contendere era una norma tedesca, secondo cui le imprese vincitrici di un appalto avrebbero dovuto riconoscere ai propri lavoratori il salario minimo. Tale disposizione, secondo la Corte, non doveva essere applicata “se l’impresa aggiudicatrice intende eseguire il servizio tramite un subappaltatore situato in un altro Stato membro”. Dunque, anche in questo caso, tra diritto al salario minimo e libertà economica fu la seconda a prevalere.
Un simile tracollo di quelle basi giuridiche che, nel contesto della comunità dei popoli europei, erano state poste a tutela dell’equità e della giustizia sociale avrebbe gelato il sangue dei tre intellettuali che nel 1941 scrivevano:
"I lavoratori debbono tornare ad essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l’osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che siano realizzate quelle trasformazioni sociali".
Solo se si conserva memoria delle radici politico-culturali della prima idea di Europa unita, si può prendere coscienza del profondo paradosso che separa l’europeismo delle origini dall’europeismo mainstream di oggi: poco ha a che fare l’odierna visione programmatica di smantellamento dei diritti sociali a favore delle “fondamentalissime” libertà economiche con il sogno del Manifesto di Ventotene.
Poco ha a che fare l’integrazione “senz’anima” dettata dai Trattati di Maastricht con l’idea di “Europa libera e unita” di Spinelli, Rossi e Colorni.
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Questo articolo è il secondo episodio della "Guida rapida all'Europa di Maastricht" a cura di Kritica Economica.
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