Libertà, giustizia sociale, pace. Un trinomio di principi “interdipendenti e solidali” doveva essere alla base dell’Europa unita nelle speranze di Alcide De Gasperi, uno dei padri fondatori del progetto di integrazione europea.
La libertà era intesa come una condizione generale necessaria per tutelare la pace. Questa sarebbe stata assicurata da un sistema economico solido e prospero, con la giustizia sociale come colonna portante. Un circolo chiuso in cui l’azione democratica avrebbe trovato la ragione stessa della sua esistenza, puntando alla salvaguardia della pace e alla ricerca della giustizia sociale.
Ma bisogna chiedersi se, e in quale misura, tali promesse siano state mantenute dalla costituzione dell’Unione Europea. In un nostro articolo precedente, abbiamo introdotto il tema dell’inconciliabilità dei principi della giustizia sociale con le libertà economiche (per come sono state definite a Maastricht) .
Tra le libertà economiche nell’Unione, quella di circolazione dei capitali è stata l’ultima ad essere realizzata. Come scrive Contaldi, “per i capitali [...] la liberalizzazione completa è avvenuta solo alla fine degli anni ‘80 ed è stata codificata [...] solo con il Trattato di Maastricht del 1992”1. Maastricht ha cristallizzato il trionfo della fede nel mercato – e in particolare in quello finanziario.
Paradisi fiscali all'europea
I fallimenti del modello di Maastricht sono particolarmente evidenti quando ci si sofferma sul problema delle disarmonie fiscali. All’interno dell’Unione vi sono alcuni Paesi, soprannominati i magnifici sette, che attuano sistematicamente politiche di dumping fiscale, spalancando le porte alle grandi imprese, che possono così mettere in atto pratiche di pianificazione fiscale aggressiva.
Tali pratiche consistono “nello sfruttamento delle disparità trasnazionali tra gli ordinamenti tributari, al fine di conseguire vantaggi d’imposta che gli Stati non avrebbero altrimenti inteso concedere”2.
Come abbiamo scritto su Kritica, si tratta di “veri e propri paradisi fiscali, in cui le multinazionali attraverso un istituto chiamato “tax ruling” possono concordare con le autorità competenti il trattamento fiscale [...] ottenendo una significativa riduzione delle imposte dovute. L’aliquota effettiva [...] tende così ad avvicinarsi allo zero”.
La Commissione, in un report del 2018, ha evidenziato che “la pianificazione fiscale aggressiva distorce la concorrenza tra le imprese e sottrae ingiustamente risorse agli obiettivi di spesa dei governi”. In un'audizione del 2020 alla Commissione Politiche della Camera, il presidente dell’Agcm1Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato Roberto Rustichelli ha dichiarato che tali pratiche “hanno generato negli ultimi 20 anni minori entrate per l’Unione Europea nell’ordine di 35-75 miliardi all’anno”.
Un vicolo cieco?
Come si può impedire questa perdita di risorse? Una maggiore armonizzazione fiscale sarebbe la soluzione ideale, ma a Trattati invariati è impraticabile. Infatti, anche dopo il Trattato di Lisbona, l’imposizione fiscale rimane uno di quei settori sensibili su cui il Consiglio, “composto da un rappresentante di ciascuno Stato membro a livello ministeriale”2Ex art.16 del Trattato sull'Unione europea, decide all'unanimità.
Introdurre regole fiscali comuni sarebbe impossibile: basta che uno dei magnifici sette si dichiari contrario perché ogni processo di riforma venga stroncato sul nascere. È evidente la miopia di chi non è riuscito a prevedere che un mercato comune, con livelli di tassazione diseguali, avrebbe prodotto squilibri e malessere sociale.
Infatti, lo "spazio senza frontiere interne"3Ex art.26.2 del TFUE previsto dai Trattati può produrre fenomeni dannosi per il benessere dei cittadini, se le istituzioni pubbliche lasciano i capitali a briglia sciolta. La libertà di circolazione dei capitali, come abbiamo visto, genera strutturalmente dumping salariale e fiscale: i capitali si spostano nei Paesi in cui si pagano meno tasse e negli Stati, soprattutto nell’est Europa, in cui i lavoratori sono meno tutelati.
Le delocalizzazioni creano un circolo vizioso, perché si instaura una competizione per nulla virtuosa tra le nazioni europee: invece di investire sull’innovazione si spingono al ribasso i salari e si riduce la spesa sociale. I governi sperano così di poter attrarre sul loro territorio quei capitali, garantendo in tal modo maggiore occupazione.
Una speranza
È evidente, che, se lo Stato cede ai ricatti del mercato, a indietreggiare sono i diritti di tutti. Non si tratta solo di un problema di condizioni materiali: è lo stesso sistema democratico che viene indebolito da forze esterne. Risulta allora difficile credere che il mercato interno sia davvero lo "spazio di libertà, sicurezza e giustizia" descritto dall'articolo 67 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea.
Proprio a tal proposito è utile ricordare quel che scriveva Keynes: “Niente è più sicuro del fatto che i movimenti di capitali devono essere regolati; il che di per sé comporterà un allontanamento radicale dai principi di laissez-faire”3. Una lezione da seguire, se vogliamo davvero andare oltre Maastricht.
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Questo articolo è il quarto episodio della "Guida rapida all'Europa di Maastricht" a cura di Kritica Economica.
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