Recentemente si sottolinea sempre di più l’importanza di rendere il linguaggio quotidiano più adatto alle esigenze dei tempi. Per molti dovrebbe essere più inclusivo e neutrale. Senza entrare direttamente nei meandri di questo dibattito, ci domandiamo: è necessario intervenire anche sul linguaggio economico?
Spesso in economia si ricorre a termini errati, che tuttavia vengono ancora utilizzati per comodità e soprattutto per abitudine: è ora di cambiarli.
Frequentemente la teoria marginalista viene chiamata teoria neoclassica: ormai questo termine è obsoleto e dovrebbe essere cancellato dal dizionario economico.
La storia del pensiero economico è divisa sostanzialmente in due: da una parte troviamo la teoria marginalista, che determina simultaneamente le variabili dell’economia, come i prezzi e i saggi di remunerazione dei fattori produttivi, con l’equilibrio delle curve di domanda e di offerta. È la teoria che viene studiata nei corsi base di microeconomia e che spesso viene presentata come l’unica valida. In realtà ne esiste (almeno) un’altra: la teoria classica, che trae le sue origini da Smith, Ricardo e Marx, e che sviluppa un ragionamento sull’analisi del sovrappiù, ovvero la parte eccedente della produzione alla reintegrazione dei mezzi di produzione e i salari per i lavoratori, andando a determinare con delle equazioni di prezzo le stesse variabili dell’economia individuate dalla teoria marginalista.
È fondamentale evidenziare che l’economia non è una scienza rigida, come spesso viene definita, ma al contrario è una scienza sociale. Esistono quindi almeno due teorie, ma di sicuro non ne esiste una sola valida (c’è da puntualizzare però il fatto che la teoria marginalista, quella dominante, contiene vizi logici o errori analitici, mentre la teoria classica ha generalmente superato le sue problematiche interne).
Le due teorie non sono nate insieme. La teoria classica non ha una data precisa di nascita, ma si può affermare che le sue radici provengono da autori fisiocratici come il francese Quesnay, autore del Tableau Economique del 1758. Successivamente la teoria classica (o del sovrappiù) è stata approfondita da Smith(con La Ricchezza delle Nazioni del 1776), da Ricardo (con i suoi Principi di Economia Politica del 1817) e infine da Marx (nel Capitale, pubblicato a partire dal 1867).
Successivamente ci furono degli “autori di transizione” tra la teoria classica e la teoria marginalista, come John Stuart Mill, che, pur ritenendosi un fedele discepolo di Ricardo, introdusse vari elementi estranei alla sua teoria. Per esempio, Mill difese la teoria del fondo salari, ovvero quella teoria in cui il salario era determinato meccanicamente, e implicitamente veniva affermato il pieno impiego dei lavoratori, decisamente in contrasto con le teorie di Marx e Smith, e più vicino alla futura teoria marginalista.
Mill accettò anche la teoria dell’astinenza per giustificare il saggio del profitto, che fu poi la base per la nascita della futura teoria marginalista. Infine, lo stesso autore decise di determinare il valore seguendo il principio della domanda e dell’offerta, oggetto del tutto estraneo dall’analisi classica.
La teoria marginalista invece nacque tra il 1871 e il 1874, con tre opere fondamentali: Nel 1871 l’inglese Jevons (1835-1882) pubblica la teoria dell’economia politica, nello stesso anno l’austriaco Carl Menger (1840-1921) pubblica I principi di economia politica, nel 1874 il francese Leon Walras (1834-1910) pubblica gli Elementi di economia politica pura. I tre lavori condividono il riferimento all’utilità marginale, principio non presente nella teoria classica.
E allora, come è nato il termine teoria neoclassica?
Anche se le due teorie sono completamente diverse, Alfred Marshall tentò in maniera abbastanza goffa di creare dei collegamenti tra la teoria classica di Smith e Ricardo, e la nuova teoria marginalista dell’equilibrio di domanda e offerta: egli imputò spesso a Ricardo dei concetti assolutamente estranei alla sua teoria, come per esempio il fatto che l’utilità fosse essenziale nella determinazione del valore nella sua analisi.
Marshall, quindi, cercò di collegare le due teorie, e affermò che la teoria marginalista fosse una teoria classica più precisa. Proprio per questo iniziò ad essere popolare l’espressione “teoria neoclassica”.
Marshall decise di fare ciò poiché aveva studiato dai testi di Ricardo e Mill, e inoltre perché probabilmente una teoria, anche se nuova, sarebbe stata recepita più facilmente se fosse stata percepita come il seguito della teoria tradizionale, quella di Ricardo e degli autori classici. L’intento di Alfred Marshall, oltre ad avvicinare il più possibile le due teorie, era quello di allontanare il pensiero di Karl Marx da quello di David Ricardo, anche se le loro analisi si fondavano sulla stessa teoria del lavoro incorporato nelle merci, risalente alla prima teoria del valore di Smith.
Questa posizione peraltro si discosta da quella dei primi autori marginalisti. Il tedesco Jevons, anche lui teorico marginalista, per esempio criticava aspramente Ricardo e la sua teoria:
“Quando alla fine si giungerà alla formulazione di un sistema esatto di economica [economics] ci si avvedrà che la mente capace ma male indirizzata di David Ricardo ha posto su una via fallace il carro della scienza economica, via su cui lo spinse ulteriormente la mente parimenti capace del suo ammiratore John Stuart Mill.”
(Cfr. R. Lekachman, Storia del pensiero economico, Milano: F. Angeli, 1993, p. 241.)
Anche Keynes fece un grave errore che difficilmente passa inosservato leggendo la sua Teoria Generale. Nel primo capitolo spiega che la sua analisi si contrappone a quella classica, spiegando in nota che “l’espressione ‘gli economisti classici’ fu inventata da Marx per comprendere Ricardo e James Mill ed i loro predecessori, ossia per i fondatori della teoria che è culminata nell’economia ricardiana. Io mi sono abituato, forse scorrettamente, a comprendere nella ‘scuola classica’ i successori di Ricardo, ossia coloro che hanno adottato e perfezionato la teoria dell’economia ricardiana, compresi per esempio J. S. Mill, Marshall, Edgeworth e il prof. Pigou”. (Keynes, 1936, Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, libro I capitolo I).
Keynes ha l’impressione di utilizzare un termine sbagliato, ma essendo stato discepolo di Marshall è anche comprensibile capire il perché lo faccia.
Questo errore però non può essere fatto oggi, soprattutto dopo che Piero Sraffa ha messo in luce la teoria ricardiana del valore e della distribuzione, allontanandola definitivamente dal marginalismo.
La teoria marginalista non ha nulla a che vedere con la teoria classica di Smith, Ricardo e Marx, e per questo non dovrebbe essere chiamata neoclassica, bensì anticlassica.
Nello stesso modo in cui negli anni ci siamo abituati a non utilizzare certe parole nel linguaggio quotidiano, ora è arrivato il momento di farlo anche per l’economia.