È opinione diffusa che la disciplina dell’economia non si stia confrontando abbastanza con il problema delle disuguaglianze, o che non lo stia facendo nel modo adeguato.
Anche il questionario sottoposto ai partecipanti alla Summer School di Colonia (a cui siamo intervenuti) ha confermato questa sensazione. Alla domanda “Ritieni che la disciplina dell’economia si stia occupando in modo adeguato del tema della disuguaglianza?" la maggior parte degli studenti ha risposto in modo negativo.
C’è una ragione storica precisa dietro questa sensazione: in effetti, un certo filone della teoria economica ha relegato le disuguaglianze a istanza secondaria, o addirittura ha asserito che è un problema che non ha senso porsi.
Un esame completo delle teorie della distribuzione sarebbe stato troppo ampio per poter essere affrontato, per cui nel nostro intervento centrale nella Summer School ci siamo focalizzati su un momento preciso della storia del pensiero economico. Si tratta del momento in cui la teoria marginalista prende il sopravvento sulla teoria del valore, determinando la decisiva separazione tra il problema della produzione e quello della distribuzione.
In questa visione dell’economia, che delineeremo meglio nelle prossime righe, ognuno riceve ciò che gli spetta: il salario è la giusta remunerazione del lavoro, come l’interesse quella del capitale. In altre parole, abbiamo provato a spiegare la ragione profonda dell’apparente disinteresse dell’economia per il problema della distribuzione del reddito, che è un altro modo di vedere la questione delle disuguaglianze.
Gli economisti classici
Il punto di partenza per comprendere questo punto di cesura sono i cosiddetti economisti classici: Adam Smith, David Ricardo, Robert Malthus. Con questi economisti, attivi tra la metà del Settecento e la fine dell’Ottocento, l’economia acquisisce una propria autonomia come disciplina, staccandosi dall’etica, dalla filosofia e, talvolta, dalla religione.
Come nelle scienze naturali le scoperte della fisica classica avevano fatto sperare che il mondo fosse spiegabile tramite formule matematiche, così si cominciò a coltivare il sogno che leggi dello stesso tipo potessero esistere anche nel susseguirsi delle vicende umane. L’impatto di questa rivoluzione del pensiero, unito al dispiegamento della potenza finora mai sperimentata della rivoluzione industriale, porta alcuni studiosi ad interrogarsi sulle cause della differenza di ricchezza tra le nazioni e gli individui.
Riassumere il pensiero di questi economisti è compito non facile, non solo per la diversità delle loro posizioni, ma anche perché nel loro pensare abbracciarono una grande varietà di temi. Quello che è rilevante per la nostra storia è che gli economisti classici, seppur in modo diverso, avevano delle teorie della distribuzione e si erano posti il problema delle disuguaglianze.
Questi economisti erano impegnati ad indagare come il sovrappiù, cioè l’eccedenza che si forma dall’agire economico, si distribuisce tra gli agenti che operano nell’economia. In questo senso essi avevano sviluppato delle teorie della distribuzione del reddito, anche se di tipo funzionale, tanto che Ricardo affermerà che “il problema principale dell’economia politica è determinare le leggi che regolano la distribuzione [del reddito]”1“to determine the laws which regulate this distribution, is the principal problem of the Political Economy”
fonte: Ricardo, 1821, Preface, p. 5. Connesso a questo problema vi era quello di stabilire quale fosse il valore delle merci, concetto antecedente al prezzo, che quindi ne rappresenterebbe una forma fenomenica.
In modo diverso e con argomentazioni diverse, per gli economisti classici uno dei problemi cardine era stabilire l’origine del valore (e poi del prezzo) delle merci. La ricerca di una teoria del valore sarà il problema principale che terrà impegnati gli economisti classici (che a loro volta ereditano da pensatori precedenti) e che costituirà l’impianto teorico di riferimento fino alla prima metà dell’Ottocento. In particolare, la teoria del valore-lavoro, sviluppata in modo diverso da Smith e Ricardo, sanciva il legame tra il valore di una merce e il lavoro necessario per ottenerla.
Dopo i classici
Verso la metà dell’Ottocento, tre diverse idee contribuirono a modificare radicalmente l’apparato concettuale degli economisti classici. Queste idee costituiscono i tasselli di un puzzle che ci aiuterà a vedere come il problema della distribuzione del reddito (e quindi delle disuguaglianze) non sia più il problema centrale dell’economia.
La prima è la rivoluzione marginalista, la seconda è la ricerca dell’equilibrio economico generale e la terza è il concetto di Pareto-efficienza. Sono idee sviluppate da personaggi diversi della storia del pensiero economico, ma che nel tempo hanno trovato una sintesi comune in quello che diverrà il paradigma economico neoclassico.
La rivoluzione marginalista è forse la prima vera rivoluzione concettuale della storia del pensiero economico. Tre diversi pensatori in tre diversi Paesi (Léon Walras, William Stanley Jevons e Carl Menger), senza comunicare, arrivarono alla stessa idea: recuperando il concetto di utilità della tradizione utilitaristica e unendolo alle teorie del calcolo infinitesimale, svilupparono l’idea che il valore delle merci corrisponda al valore che ognuno di noi associa ad una unità incrementale di un dato bene. L’uomo, l’agente economico, diventa quindi homo oeconomicus, un agente che massimizza la propria utilità (evidenti qui gli echi di Bentham). La quantità di lavoro quindi non è più il fattore determinante per determinare il valore (e il prezzo) di una merce.
L’impostazione basata sull’utilità marginale diverrà il fulcro di tutta l’analisi economica successiva, ed è il metodo base applicato ancora oggi. Questo cambiamento nell’approccio all’economia, che non a caso è chiamato “rivoluzione”, è sancito anche dalla trasformazione del nome della disciplina: l’influente economista inglese Alfred Marshall (1842–1924) infatti smetterà di usare il termine political economy (economia politica) per riferirsi alla ancora neonata disciplina dell’economia, e conierà il termine economics, l’economia come scienza. Nel 1932 Lionel Robbins (1898–1984), di tradizione marshalliana, definirà l’economics come la scienza che studia il comportamento umano in relazione all’allocazione alternativa di risorse scarse. Nessuno spazio per l’equità, ma anche e soprattutto per i giudizi di valore. L’intento esplicito di Robbins è proprio di eliminare tutto ciò che non fosse immediatamente riferibile a un calcolo.
Facciamo un salto indietro per occuparci del secondo tassello del puzzle. Uno dei tre autori della rivoluzione marginalista sviluppò infatti anche un’altra idea destinata a cambiare la storia dell’economia. Il contributo più famoso di Léon Walras (1834-1910) è l’aver gettato le basi per la teoria dell’equilibrio economico generale.
Walras, affascinato dalla fisica classica, immagina l’economia come un sistema di mercati interconnessi, rappresentabili da un sistema di equazioni. La soluzione di ogni equazione rappresenterebbe il prezzo che riesce ad eguagliare domanda e offerta. La soluzione del sistema sarebbe quindi un vettore di prezzi di equilibrio, tali da lasciare ogni mercato in equilibrio. Walras non riuscirà mai a superare le difficoltà matematiche insite nell’impresa, ma il fascino dell’idea di un equilibrio economico generale genererà un filone di ricerca molto prolifico, culminato nella prova dell’esistenza dell’equilibrio nel 1959 di Gérard Debreu e continuato con altri notevoli contributi.
Quello che è rilevante per la nostra storia è che l’idea di equilibrio economico generale si accompagna a un’altra idea, più implicita, ma molto potente: che tutto possa essere concepito come mercato, anche ciò di cui fino a quel momento non si poteva fare mercato (per esempio il lavoro). Lo schema concettuale di domanda e offerta comincerà ad apparire come un framework conveniente per strutturare i problemi economici.
L’economia quindi iniziava a configurarsi come un insieme di mercati interconnessi, popolati da agenti massimizzanti l’utilità marginale, in cui i prezzi erano la forma fenomenica di questa manifestazione. E tuttavia si poneva ancora un problema: quello dell’efficienza. Come poter giudicare l’efficienza di un sistema così configurato?
Qui entra in gioco il terzo tassello del puzzle, il concetto di Pareto-efficienza, sviluppato dall’economista e sociologo Vilfredo Pareto (1848–1923) - che ovviamente in origine non lo chiamò così... Secondo questo concetto, una situazione è Pareto-efficiente (o efficiente in senso paretiano) se non è possibile accrescere il benessere di alcuno dei soggetti coinvolti, se non riducendo il benessere di qualcun altro di loro.
L'economia del benessere
Il concetto di Pareto efficienza è centrale per un particolare ramo dell’economia, molto rilevante per la nostra storia: l’economia del benessere. Convenzionalmente nata nel 1932 con il libro "Economics of Welfare" di Arthur Cecil Pigou (1877-1959), l’economia del benessere cerca di valutare se le situazioni economiche si avvicinano o meno a un ottimo sociale. La storia dell’economia del benessere è densa e travagliata, costellata di approcci tra loro rivali e diametralmente opposti, centrati sul conflitto tra analisi positiva e normativa.
I due teoremi fondamentali dell’economia del benessere si sviluppano in senso a questa disciplina, cristallizzando il modus operandi che l’economia del benessere avrebbe adottato in modo uniforme:
Primo teorema fondamentale dell'economia del benessere:
“Un sistema di mercato perfettamente concorrenziale è in grado di realizzare una allocazione ottimo-paretiana”.Secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere:
“Modificando adeguatamente la distribuzione iniziale delle risorse tra gli individui e lasciando poi all'operare del mercato la realizzazione dell'allocazione efficiente delle risorse, è possibile raggiungere una diversa situazione di ottimo rispetto a quella realizzata con l'iniziale distribuzione delle risorse”.
Questi due teoremi legano la teoria dell’equilibrio economico ad un giudizio di efficienza, ma non di equità, e sanciscono la giustificazione teorica a politiche di laissez-faire. Come mostra un famoso diagramma a due agenti e due beni usato nei corsi base di microeconomia, ossia la scatola di Edgeworth, le allocazioni Pareto-efficienti sono anche quelle in cui un agente ha tutti i beni e l’altro non ha nulla.
Chiudiamo il cerchio
Il paradigma neoclassico, di cui abbiamo illustrato alcuni assi portanti, aggiunge poi all’analisi del consumatore anche l’analisi dell’impresa, con strutture del tutto analoghe e imperniate sulla massimizzazione: l’impresa massimizza i profitti, o minimizza i costi, operazione analoga alla prima come provato da Paul Samuelson. La marginalità qui entra come produttività marginale dei fattori: salario e interesse sono la remunerazione dei rispettivi fattori produttivi.
Quindi il salario è la remunerazione del fattore lavoro, come l’interesse è la remunerazione del fattore capitale. Il quadro è quindi completo: l’economia descrive un mondo regolato dai mercati, dove il consumatore massimizza la propria utilità, come l’impresa massimizza i profitti. La Pareto-efficienza e i due teoremi dell’economia del benessere assicurano un margine di aggiustamento delle configurazioni di equilibrio attraverso la modifica delle dotazioni iniziali degli agenti, ma non è compito dell’economista occuparsi delle questioni di giustizia distributiva. L’economia guarda all’efficienza, garantita dai mercati che tendono all’equilibrio, tutto il resto è affare dei politici e dei sociologi.
Economia, ma anche politica
L’economia neoclassica è il paradigma egemone, o mainstream, oggi insegnato in tutte le università del mondo. Quello che è meno noto è che questo schema concettuale ha fatto anche da base per la formulazione di molte politiche neoliberiste, come quelle citate nella prima parte dell’articolo. Ed è qui che l’apparente disinteresse dell’economia per la questione della distribuzione diventa palese anche ai non addetti ai lavori. La fiducia nel mercato ha portato al disinteresse (spesso forse interessato) per le politiche redistributive, relegate solo alla modificazione delle allocazioni iniziali come dettato dal secondo teorema dell’economia del benessere.
È interessante notare come nel paradigma neoclassico non siano previsti conflitti, specialmente conflitti di classe. Il principio della produttività marginale garantisce l’efficienza della remunerazione dei fattori, per cui ognuno ha ciò che merita secondo le leggi stabilite dal mercato.
Piero Sraffa (1898-1983), uno degli intellettuali italiani più importanti del Novecento, ha dimostrato nel suo libro "Produzione di merci a mezzo di merci" (1960) che, al contrario, al fondo della teoria neoclassica rimane il conflitto tra salari e profitti. Un risultato prorompente, anche perché dimostrato con assoluto rigore matematico, e proprio per la sua portata potenzialmente devastante per la teoria dominante degno di una vera e propria damnatio memoriae, soprattutto in Italia. Il risultato di Sraffa è potenzialmente così esplosivo che Claudio Napoleoni, economista italiano attivo nel Novecento, ha asserito che Sraffa...
...ci obbliga a ricominciare tutto da capo.
Che fare?
Nella teoria economica contemporanea, a fronte del susseguirsi di crisi economiche spesso planetarie come quella del 2008, si assiste a due fenomeni contrastanti. Da un lato vi è il consolidarsi del paradigma mainstream - soprattutto nelle università e anche grazie al meccanismo di pubblicazione degli articoli accademici - e dall’altro il fiorire di teorie cosiddette eterodosse che mettono al centro dei loro discorsi proprio il tema delle disuguaglianze.
Se da un lato i limiti del paradigma neoclassico affiorano con sempre maggiore chiarezza, dall’altro vi è come una chiusura di questo paradigma, che alza le difese di fronte agli attacchi di teorie che gli rinfacciano la scarsa attenzione per temi come la sostenibilità ambientale e le disuguaglianze.
È da rilevare tuttavia che anche nella teoria mainstream c’è stato un progressivo riconoscimento della centralità del problema dell’equità nella distribuzione delle risorse, anche grazie all’assegnazione del premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel (erroneamente chiamato “Premio Nobel per l’economia”) a Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer, le cui ricerche hanno posto al centro proprio al problema delle disuguaglianze.