Martedì [26 marzo, ndr] dovevamo avere un tavolo al Mimit1Ministero delle Imprese e del Made in Italy.. Ieri [giovedì 21 marzo, ndr] l’azienda ha chiesto di trasformare questo tavolo di crisi in un tavolo presso il Ministero degli interni: un tavolo di sicurezza su GKN. Non solo chiedono la trasformazione di un tavolo sociale in uno di ordine pubblico. Fatto ancor più grave, motivano questa richiesta giustificandola con l'immobilismo della Prefettura di Firenze, con le denunce presentate presso le Procure di Firenze, Roma e Frosinone.
È una richiesta che viene di fatto da un simulacro di azienda: da un liquidatore e da un'azienda su cui è legittimo il sospetto sociale di trovarsi di fronte a un soggetto che agisce per completare la delocalizzazione per procura. Ricordiamo che non siamo di fronte a un soggetto industriale che vive difficoltà di mercato, ma da una proprietà arrivata nel dicembre 2021 promettendo di portare un futuro investitore ulteriore. È l’ex advisor di Gkn che si fa intestare Gkn Firenze, senza mai chiarire quanto ha pagato il tutto e senza mai presentare di fatto un piano industriale. Ripetiamo: il sospetto di trovarsi di fronte a una delocalizzazione per procura e a una operazione speculativa è legittimo e forte.
Ora, quando un simulacro di azienda arriva a chiedere a un Esecutivo Nazionale, a un Governo, di fare allo stesso tempo da giudice, giuria, processo, procura, tribunale su una lotta sociale, quando chiede di trasformare un tavolo sociale in un tavolo di ordine pubblico, è la cosa più vicina al concetto di fascismo a cui mi sia mai capitato di assistere nella mia vita, se escludo Genova, il 2001, Bolzaneto e Diaz. E questo a prescindere che riesca o meno nel suo intento.
Tutto questo avviene a fronte di una fabbrica salvaguardata dall’assemblea permanente. E avviene tra l'altro in una fabbrica che usa come strumento di lotta un Festival di letteratura. È una cosa incredibile quanto temano questo Festival. Quando abbiamo iniziato a organizzare il Festival di letteratura working class, abbiamo avuto una premonizione: “Più ci avvicineremo al Festival, più andranno letteralmente fuori di testa”. Ed è proprio così. L'accelerazione di questo attacco è diretta anche contro il Comune di Campi Bisenzio, perché ha dato il patrocinio al Festival.
C'è una psicosi aristocratica verso l'operaio che parla, scrive, racconta. È impressionante: io non l'avevo mai vista a questi livelli. Mi ricorda un po' i film dell'Ottocento, in cui c'è la dama che deve scrivere di nascosto, perché è disdicevole che certi soggetti scrivano. Ecco, mi ricorda qualcosa del genere, il che ci dà anche la cifra di come sono arretrati i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
Invece, noi con il concetto di "fabbrica socialmente integrata" stiamo destinando un pezzo della fabbrica a iniziative socio-culturali del territorio. Un'iniziativa contemplata dalla legge: oltre a rientrare nella legge 234 del 2021 (prodotta sotto pressione anche della nostra lotta), è prevista dall’Articolo 11 dello Statuto dei Lavoratori. E poi è qualcosa che per esempio fecero gli operai a Firenze nel 1945: non proprio un periodo facile, in cui c'era da divertirsi. Allora gli operai delle Officine Galileo a Firenze crearono Flog, che negli anni è diventata una sala concerti, ma all'inizio era un circolo operaio culturale.
Interviene Vincenzo Comito, ricordando la realizzazione di teatri a Ravenna da parte degli operai nello stesso periodo.
Io penso che avessero parecchi problemi, no? Nel 1945 ancora tecnicamente non erano nemmeno usciti dalla monarchia. Però pensavano, pensavano di costruire teatri. E qual era il concetto? Che la classe si mette al centro, diventa classe dirigente mettendosi al centro della transizione economica, produttiva, democratica del Paese in quel caso. Ovviamente questo implica anche mettersi al centro della liberazione, o del tentativo di liberazione e di emancipazione nella sfera ricreativa e culturale, o nella sfera della ricerca.
E ovviamente si invocava l'intervento pubblico. Ma perché si invocava l'intervento pubblico e contemporaneamente si costruiva dal basso? L'intervento pubblico, quello che almeno io da giovane militante mi sono trovato a scrivere tante volte sui volantini, “nazionalizzazione sotto controllo operaio” o “facciamo come in URSS”, in realtà è un’astrazione storica. Nemmeno negli esempi più classici, nelle rivoluzioni sociali più avanzate, avviene questo tipo di intervento pubblico. Non c'è una stanza dei bottoni dove dici: "Intervento pubblico". Quello che puoi stabilire nei momenti più avanzati di un cambiamento sociale è che cambi la natura proprietaria del capitale, da privato a pubblico, e non è poco. Non è poco.
Però poi, se si intende l'"intervento pubblico" come messa a disposizione pubblica di una produzione, di un bene, e via dicendo, non lo puoi fare se non c'è un reticolato di classe dirigente diffusa, comunitaria mi verrebbe da dire, in grado effettivamente di creare. Creare che cosa? Una pianificazione pubblica, che è fatta non di direttive, ma di feedback di ricercatori e ricercatrici, di scoperte, di problemi che vengono segnalati.
Fatta questa premessa, torniamo invece al tema della discussione. Perché poi noi abbiamo questo problema: che più cerchiamo di parlare di questi concetti, più loro attaccano su un altro terreno, quello dell’attacco alla lotta, e perciò siamo costretti a parlare di altro. È molto frustrante per noi: in realtà avremmo molto da dire proprio sul terreno della transizione dell'automotive, del fotovoltaico, delle cargo bike, che sono poi le cose che abbiamo studiato.
Il mercato non può fare una transizione ecologica. Non riesce a farla. Se la fa, la fa in modo troppo parziale e troppo lento. Sarebbe una forzatura dire che il mercato non è in grado di produrre delle singole migliorie tecnologiche e tecniche in questo ambito. Ma a che costo? Con che lentezza? E soprattutto su che scala? Perché più il mercato diventa globale, complessivo, devastante, "turbo", chiamatelo come volete, più aumenta la scala dei danni ecologici e accelera la loro velocità.
Qui, per esempio, il movimento operaio ebbe la possibilità di accorgersi dell’amianto, come risultato della pressione dal basso degli stessi lavoratori. È un’astrazione burocratico-sindacale dire che i lavoratori non si interessano di ambiente. Uno dei più grossi disastri ambientali del nostro paese, quello di Seveso, sarebbe stato scoperto ancora più tardi se non ci fosse stato il sistema dei consigli di fabbrica. Anche allora c'erano i solidali, in quel caso il PCI, Laura Conti, una classe di medici e ricercatori formatasi in un altro tipo di università, meno privatistica. Quindi c'era un complesso di fattori senza il quale non avremmo saputo quello che poi abbiamo saputo del 1976 a Seveso. E se non fossero caduti la DC e il PSI non avremmo scoperto un armadio della vergogna nella Regione Lombardia che poi ci ha spiegato tante altre cose su come era stato nascosto il disastro. Quindi da sempre la salute e la transizione ecologica vengono dal basso, dalla pressione delle classi sociali, dell’aiuto sociale e dei suoi riflessi anche in chi fa ricerca, studia, eccetera.
Quindi il mercato non può fare la transizione ecologica; se la fa, la fa troppo lentamente, perché non è un tema di tecnologia, è un tema proprio di sistema. Se guardiamo la discussione sull’automotive, per esempio, è chiaro che l'auto elettrica è meglio dell'auto endotermica. Ed è anche chiaro che il tempo con cui sta venendo introdotta è tremendamente lungo, che il mercato deve introdurre l'auto elettrica prima nel settore di lusso perché altrimenti non regge - e quindi è già così una transizione monca, che comunque è sbagliata perché si buttano via milioni di auto individuali senza tentare di fare retrofit, e via dicendo. Quindi la transizione nell'automotive è un meccanismo che se riduce leggermente le emissioni, non riesce però a risolvere il problema sistemico, di come vengono prodotte l’energia, le batterie, la plastica, delle auto che nel frattempo vengono buttate via troppo rapidamente.
E poi al di là di questo non puoi fare la transizione ecologica dell’automotive in un sistema che allunga le filiere produttive come propria natura. Noi producevamo semiassi, la GKN di Firenze era centrale perché poteva servire Mirafiori, Modena, Pomigliano, Melfi, praticamente tutti gli stabilimenti Stellantis. Ma già così, il pezzo centrale lo facevamo noi, un pezzo arrivava dalla Slovenia, un pezzo dalla Spagna, un altro dalla Polonia, il grasso e i componenti non sappiamo da dove. Per cui, di fatto, ci arrivava qualcosa che era il risultato di una catena produttiva incredibile, anche se il semiasse tutto sommato è un pezzo semplice. Noi lo assemblavamo, poi lo spedivamo a Melfi che a sua volta lo montava sulle Jeep Renegade e inviava il tutto negli Stati Uniti.
Oggi la transizione trascura questa enorme catena di emissioni di CO2, che rincorre manodopera a basso costo, così come trascura che fra le maggiori cause dell’inquinamento urbano ci sono le polveri delle gomme. Di tutto questo si va ad agire solo su un pezzo, certo significativo, quello della motorizzazione, ma così lentamente che gli obiettivi sono fissati al 2035. E comunque tutto con incentivi statali.
Quando Tavares dice che per fare l’auto elettrica vuole incentivi statali, ammette una cosa corretta, cioè che dentro un prodotto non c'è solo una marginalità privata per la singola azienda: c'è anche una marginalità sociale. Anche per questo il sistema non riesce a fare la transizione ecologica. Non è indifferente per la società se viene fuori un'auto endotermica o un’auto elettrica: magari questa scelta abbatterà di un tot le malattie respiratorie, che peseranno un po' meno sul sistema sanitario nazionale. Ma questo il sistema privato non lo può calcolare, perché deve garantire solo la marginalità privata: è incapace di cogliere le interazioni sistemiche di piano tra tutte le condizioni, di fare pianificazione su quello che sta succedendo, pianificazione sociale, e di farla in anticipo, cioè pensando e prevedendo che cosa succede quando inizia la vita di un prodotto. Per esempio cosa sarà degli stessi prodotti della transizione ecologica, come pale eoliche e pannelli e batterie quando arriveranno a fine vita? Questo è qualcosa che la singola azienda non si può porre.
Che cosa abbiamo voluto fare creando la cooperativa dei lavoratori e il progetto di reindustrializzazione dal basso? Non sostenere che c'è un'oasi felice dentro il sistema, perché questo problema della marginalità privata del prodotto si abbatte ancora di più su una cooperativa di lavoratori. Non è che sfuggiamo. Anzi, noi abbiamo dimostrato anche nel piccolo come mai il mercato non può fare una reale transizione ecologica.
Abbiamo iniziato a discutere di pannelli fotovoltaici perché la nostra prima proposta è stata quella di convertire GKN in un polo pubblico della mobilità sostenibile. Avevamo riconosciuto che stava venendo smantellato il sistema dell’automotive e che l'industria italiana autobus era in crisi, anche perché le manca una filiera vera e propria. Perciò, avevamo pensato di creare una filiera dell'industria italiana autobus per riempire l'Italia di mezzi di trasporto pubblici, ovviamente con motorizzazione di ultima generazione. Ma non ci hanno nemmeno ascoltati. Quindi, quando in ottobre 2022 l'attacco del padrone è diventato devastante lasciandoci 8 mesi senza stipendio, abbiamo dovuto elaborare un piano industriale che si basasse sulla singola fabbrica - molto difficile. Abbiamo dovuto individuare dei prodotti finiti alla nostra portata: abbiamo individuato le cargo bike, che possiamo produrre in maniera relativamente facile anche perché non hanno bisogno di grosse certificazioni, e i pannelli fotovoltaici. Entrambi questi prodotti hanno delle tendenze di mercato, di sviluppo, previsioni di mercato enormi: triplicare, quadruplicare, eccetera, ma poi vai a vedere…
Abbiamo iniziato la discussione sui pannelli fotovoltaici che costavano 0,30-0,32 centesimi al watt e volevamo fare pannelli fotovoltaici basati sul carbonio: una tecnologia in mano a una start up. Già qui c'è una stortura. Perché una transizione ecologica così importante deve stare in mano a piccole start up, ché se due persone litigano all'interno si blocca tutto? È follia. E questo non vuol dire che non ci devono essere start up, ma dovrebbero stare in incubatori di start up, pubblici, con capitale pubblico e iniziativa sociale da parte anche di piccole imprese startuppistiche ma socializzate. Anche perché se tu raggiungi un obiettivo socialmente interessante, io [autorità pubblica ndr] ti posso dare gli strumenti per evitare la strada del brevetto e mettere invece a disposizione l'ultimo ritrovato tecnologico, così da risparmiare tempo ed energia agli altri. Anche in questo la transizione ecologica è contraria al tipo di concorrenza che c'è nel capitalismo oggi.
Visti i ritardi del sistema startuppistico, allora pensiamo, in attesa, di ordinare una linea di pannelli fotovoltaici classici.
Siamo partiti da questa discussione un anno fa, quando costavano 0,32-0,33 centesimi al watt, con l'Europa che si batteva il petto dicendo che avrebbe quadruplicato la produzione. Dall'altro lato però ci sono i cinesi, che tra l'altro si possono basare su una forma burocratica e di pianificazione dell’economia (tutte le industrie cinesi che abbiamo incontrato ci dicono: “Noi al 65% siamo statali”). E i cinesi che hanno fatto? Hanno portato il prezzo del pannello a 0,13 centesimi al watt, ma non là: qua, disponibile in Europa per l'acquisto. Ora immaginate il livello di estrattivismo, di sfruttamento che ci deve essere, per essere passati - in un anno - da 0,32-0,33 centesimi al watt a 0,13 centesimi. Così stanno fallendo tutte le industrie fotovoltaiche europee. E ora parlano di dazi, quando in realtà l'industria fotovoltaica europea dovrebbe essere pubblica.
Attenzione, non c'è bisogno di grosse manovre burocratiche dall’alto. Quello che per esempio noi faremmo se potessimo fare una fabbrica socialmente integrata è stringere dei legami nazionali, gratuiti, con gli enti locali: in cambio di mettere i pannelli dove sono tutti gli edifici pubblici, chiediamo un minimo di remunerazione e che si impegnino a creare comunità energetiche di natura comunale e che per esempio usino il sovrappiù energetico per creare fondi per abbattere le morosità incolpevoli, visti i costi delle bollette. E tutto in qualche modo torna.
Anche sulle cargo bike abbiamo iniziato una discussione. Ma dopo il Covid gli incentivi statali si li è presi tutti la Shimano, che ha ottenuto un monopolio. Ora che il mercato è a terra stanno fallendo tutti i piccoli produttori, quelli che noi stiamo cercando di consorziare.
Termino su due cose: il sovranismo e cosa intendiamo per fabbrica socialmente integrata. C'è un rischio sovranismo in questa discussione. Si prende atto di come l'Italia e l'Europa in questa partita siano industrialmente a pezzi, ed effettivamente a un livello tale che mette in discussione anche la capacità di questi blocchi di stare in uno scontro geopolitico. Uno dei più grossi problemi che è stato denotato rispetto alla guerra in Ucraina è che la nostra industria bellica non riesce a stare dietro a un conflitto con numeri quasi da prima guerra mondiale. Qua ci muoviamo su un filo molto sottile. Da un lato abbiamo il compito di dire che tutto ciò che è sovranistico è pagliaccesco, e che in realtà siamo gli unici che hanno un'idea di sviluppo di paese. Però noi non abbiamo un'idea di sviluppo di paese: abbiamo un'idea di sviluppo di mondo, dentro cui questo paese starebbe meglio.
Se pensi che producevi Ferrari e Maserati, ti hanno delocalizzato la produzione in Polonia, e che il governo sovranista italiano ti vuole denunciare e non muove un dito, dov'è il sovranismo? Non c’è. Questo non vuol dire che dobbiamo sostituire il sovranismo nella sua retorica. Ma che dobbiamo denunciare con ancora più forza che quella roba lì è finta. Oppure che è un'economia di guerra, dove magari un domani ci troveremo con i metalmeccanici a firmare premi di risultato favolosi delle industrie belliche del nord del paese perché la produzione cresce a due o tre cifre: con il rischio di una fusione corporativa tra l'interesse dei lavoratori solo di quella fabbrica lì con la guerra. Da questo se ne esce solo di convergenza, che è come abbiamo provato a fare noi con l'idea della fabbrica socialmente integrata.
Qual è la nostra idea? Non potendo limitarci a invocare l'intervento pubblico e non volendo invocare quello che già esiste, abbiamo dovuto specificare che cos'è l'intervento pubblico che abbiamo in mente. Noi formiamo la cooperativa per avere progetti industriali con cui denunciare il vuoto di visione progettuale che c'è su un'area di 80 milioni di metri quadri, dove probabilmente hanno già deciso di fare logistica o speculazione immobiliare. E l’hanno già deciso. E quindi proponendo progetti industriali sveliamo il loro gioco, ma i nostri progetti industriali non devono essere naïf. Per non essere naïf e ingenui abbiamo bisogno di un soggetto giuridico: prima l’associazione di mutuo soccorso, poi la proto-cooperativa dei lavoratori che come sapete si chiama GFF (che si può leggere come GKN Fabbrica di Firenze o GKN For Future; teniamo insieme questi due elementi, globale e locale).
La cooperativa dei lavoratori garantisce il controllo operaio sui due terzi dell’assemblea. Poi un terzo la dovremo mettere in mano all'azionariato popolare. Vorremmo che l’azionariato popolare vada dai movimenti climatici internazionali alla pensionata di Campi Bisenzio, che magari ritiene utile che quella fabbrica continui a produrre posti di lavoro nel proprio territorio. Contemporaneamente stiamo chiedendo che la regione si faccia carico con un consorzio regionale, cosa che si può fare, o con un'entrata del capitale dentro la cooperativa, invece di una partecipazione di capitale pubblico largamente inteso. Perché non puoi scaricare sulla singola fabbrica o sulla singola cooperativa una transizione che è sociale e che deve essere larga. E perché comunque noi vogliamo rispondere ai lavoratori, ai nostri azionisti popolari, ma anche alla comunità largamente intesa.
Questo è il progetto. Il nostro presente è fatto invece di mancanza di stipendi, di lavoratori che si stanno licenziando, di fortissima stanchezza e di logoramento, causati dagli attacchi repressivi ma soprattutto da questa tortura psicologica che ogni giorno ci cambia la vita. Ieri [giovedì 22 marzo ndr] ci hanno fatto una provocazione con i bodyguard, oggi invocano Piantedosi, domani non lo sappiamo. Così è molto difficile chiarificare qualsiasi cosa. Però, contemporaneamente siamo abbastanza sereni per essere arrivati almeno a concepire tutto questo. L'unica nostra grossa paura è che il movimento sindacale, sociale, climatico, transfemminista, contro la guerra non comprenda quanto è complessa la lezione che da tutto questo può scaturire. Alla fine, tutto questo avviene perché in qualche modo abbiamo messo mano - se non mano, almeno testa - ai mezzi di produzione. Qui è la chiave: abbiamo messo testa ai mezzi di produzione, ci siamo comportati come se quei mezzi di produzione che abbiamo salvato dalla delocalizzazione li dovessimo effettivamente riavviare noi e possedere noi. E in questo è la chiave secondo me della transizione ecologica.
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Il testo di questo articolo è la trascrizione rivista dell'intervento di Dario Salvetti all'evento "Lavori climatici", tenutosi in aula Majorana alla Sapienza il 20 marzo 2024.
Crediti immagine di copertina: Collettivo di Fabbrica - Lavoratori Gkn Firenze/Facebook.
Ho letto con un mix di attenzione, entusiasmo, sofferenza il tuo intervento. Attenzione, perché come lettore appassionato di teorie economiche alternative al discorso egemone nell’accademia e nella politica economica e sociale, ritrovo nel tuo intervento alcuni elementi riconducibili alla teoria delle imprese autogestite (penso agli studi, almeno in Italia, di Bruno Jossa) e al tema della pianificazione pubblica in materia di sostegno all’innovazione. Entusiasmo, perché fino a qualche anno fa sono stato tra coloro che erano prigionieri della concezione ideologica borghese dell’efficienza, della concorrenza e dell’innovazione, tutta microeconomica e nel tuo intervento leggo la riemersione di una concezione socialista (quindi macroeconomica e macrosociale) dell’unità di produzione come associazione umana integrata con l’ambiente e la società (una concezione non ideologica dell’efficienza). Sofferenza perché gli apparati ideologici e repressivi del capitale sono sempre attivi con la loro lotta capillare e sistematica nel tentativo di impedire l’emersione di una gestione collettiva delle unità di produzione. Ma la storia non è finita, come dimostra la vostra esperienza di contro lotta, basata sulla conoscenza e la ricerca di nuove soluzioni.