Endo Kazumi è un volontario dei vigili del fuoco di 42 anni. Da dieci anni ha un incubo ricorrente: un muro che inesorabile si muove verso di lui, come quell’onda che dieci anni fa uccise 251 persone solo nel suo vicinato e nove tra i suoi colleghi pompieri, incluso il suo capo. Si ricorda di un ragazzo che ha salvato dalle macerie e dall’acqua, tremante e sotto shock, mentre cercava di aiutare quante più persone a fuggire da quella devastazione.
L’11 marzo 2011 alle 14:46, ora giapponese, un terremoto di magnitudo 9 della scala Richter colpì il mare di fronte alla regione del Tōhoku a nord-est del Giappone, di cui fa parte anche la città di Tokyo.
Il Giappone è tutt’altro che sprovvisto per quando riguarda i terremoti: essendo un arcipelago vulcanico, ce ne sono quasi quotidianamente. Le persone sono preparate, sanno come muoversi, e spesso l’edilizia è antisismica. Nonostante questo, un terremoto di quella magnitudo era qualcosa di nuovo per la maggior parte dei giapponesi.
Al violento terremoto seguì uno tsunami, che si abbatté sulla costa con onde alte anche oltre 10 metri (nelle vicinanze della città di Miyako si abbattè un’onda alta 40,5 metri), causando la distruzione di case, infrastrutture e a volte interi villaggi. Il bilancio attuale è di 15.703 morti accertati, 5.314 feriti e 4.647 dispersi.
Le immagini e i video girati da telecamere private o cellulari (era il 2011, non c’erano ancora così tanti smartphone in giro e la qualità era scarsa) sono impressionanti e fecero il giro del mondo: edifici che si muovevano come rami al vento, strade in cui si erano aperte profonde voragini e quell’onda spaventosa che tutto inghiottiva senza fermarsi.
La paura e la devastazione dello tsunami furono accompagnate dall’incidente della centrale nucleare di Fukushima, il peggiore da quello di Chernobyl del 1986. La centrale nucleare, situata sulla costa, fu colpita prima dal terremoto, che fece spegnere i reattori con una procedura attivata dal sistema di sicurezza, e poi dallo tsunami alcuni minuti dopo, che distrusse i generatori di emergenza che alimentavano i sistemi di raffreddamento dei reattori 1, 2 e 3.
Pur essendo spenti, i reattori avrebbero comunque avuto bisogno di un continuo raffreddamento a causa delle reazioni nucleari residue. L’interruzione del raffreddamento causò quindi la perdita di controllo dei reattori che causarono diverse esplosioni, distruggendo parte delle strutture che li contenevano. Il timore per l’alto livello di radiazioni ha spinto il governo a far evacuare la popolazione residente in un raggio di alcune decine di chilometri dai reattori.
Oltre alla paura per la propria salute, l’incidente rievocò anche la memoria di Hiroshima, una ferita mai veramente sanata nella coscienza del popolo giapponese.
L’incidente di Fukushima causò un ampio dibattito sulle responsabilità della Tokyo Electric Power Company (TEPCO), la società, che aveva e ha tutt’ora il compito di gestire e monitorare la centrale nucleare (una delle più grandi aziende di utility in tutta l’Asia e una delle maggiori al mondo), sulla corruzione delle istituzioni e aziende private e sollevò questioni quali la pericolosità dell’energia nucleare e il suo impatto ambientale.
Una commissione d’inchiesta appositamente nominata concluse nel 2012 che il disastro di Fukushima sarebbe stato evitabile, in quanto la TEPCO era da tempo a conoscenza del rischio di inondazione dell’impianto. Il 12 ottobre 2012 la società ha ammesso di non aver adottato adeguate misure antisismiche. L’azienda non era inoltre nuova a scandali e omissioni di questo tipo: negli anni Novanta i suoi vertici si dovettero dimettere per aver falsificato dei rapporti sulla sicurezza delle centrali nucleari e anche nel 2007 emersero irregolarità nella gestione della centrale di Kashiwazaki Kariwa a seguito di in terremoto che causò un incendio nella centrale.
Le ammissioni della TEPCO, unite ai suoi precedenti, sollevarono paure e timori nella popolazione sulla sicurezza dell’energia nucleare, fondamentale però per un paese povero di risorse energetiche come il Giappone.
Il duplice disastro mise anche in crisi il senso di identità nazionale dei giapponesi. Segnò la fine definitiva dell’illusione della crescita economica infinita, già in realtà tramontato con la bolla degli anni Novanta, ma mostrò anche le disuguaglianze profonde della società giapponese, che si percepisce sì gerarchica, ma fondamentalmente omogenea. L’impatto economico e sociale fu molto vario a seconda della situazione familiare ed economica delle singole persone coinvolte, lasciando l’impressione di un mosaico ben poco armonioso.
A dieci anni da quel disastro, il Giappone si guarda indietro e cerca di fare un bilancio. La ricostruzione procede bene, le vie di comunicazione sono state quasi tutte ripristinate, così come gli edifici pubblici. Anche le case sono state per la maggior parte ricostruite, anche se non tutte le persone sono ancora rientrate nei luoghi d’origine. Il Primo Ministro Suga Yoshihide ha annunciato di voler accelerare la ricostruzione, in modo da permettere alla popolazione di tornare nelle proprie case e di far ripartire l’economia della prefettura.
Molte celebrità e personaggi noti hanno contribuito alla ricostruzione e a dare visibilità alla zona, come lo yokozuna Hakuho (il più forte lottatore di sumo di tutti i tempi e una vera star internazionale), che ha finanziato la ricostruzione della palestra di sumo di Yamada, una cittadina devastata dallo tsunami, grazie a una raccolta fondi e inaugurandolo lui stesso con un importante rituale. Piccoli passi per tornare alla normalità.
E tuttavia, se la ricostruzione ha portato un senso di ripresa, c’è la sensazione che in fondo poco sia cambiato, a cominciare dai problemi della politica.
Le conseguenze sul mondo politico dello tsunami e di Fukushima furono pesanti e si continuano a sentire ancora oggi. Il disastro pose fine al governo del Primo Ministro Kan Naoto, uno dei rari governi guidati dal Partito Democratico del Giappone (DPJ). Le elezioni dell’autunno 2012 vennero infatti vinte dal falco Abe Shinzo del Partito Liberal Democratico (LDP), che è rimasto in carica fino al 2020 con il più lungo mandato della storia della politica giapponese moderna.
La reazione del governo Kan all’emergenza era stata giudicata troppo lenta, i processi decisionali troppo farraginosi, con il risultato di decisioni e misure tutt’altro che tempestive e lo spreco di tempo prezioso. L’insoddisfazione per come è stata gestita la crisi del terremoto e di Fukushima ha compromesso l’immagine del DJP e la sua reputazione agli occhi dei giapponesi, che sembrano avere scarsa fiducia nel ruolo stesso dell’opposizione politica. In questo modo il Partito Liberal Democratico tiene saldamente le redini del governo, nonostante i ripetuti scandali e altalenanti indici di gradimento.
La stessa scarsa tempestività della politica nel reagire alle crisi si è di nuovo riscontrata nei primi mesi della pandemia, in cui il governo Abe ha tardato a prendere misure di contenimento e aiuti economici. Il processo decisionale per decidere lo stato di emergenza non è cambiato, dimostrandosi inadeguato per rispondere in tempi rapidi in caso di necessità. Si è anche tornati a parlare della centrale nucleare a seguito della discussa decisione di riversare in mare il liquido radioattivo usato per raffreddare il combustibile fuso, con grande preoccupazione degli ambientalisti, ma anche degli stessi giapponesi.
Il governo ha inoltre deciso di riattivare alcuni reattori nucleari presenti nel paese. Dopo l’incidente di Fukushima tutti i 54 reattori nucleari del Giappone erano stati spenti, ma la legge sull’energia nucleare non è stata modificata. Il governo ha quindi potuto riattivare 9 reattori senza problemi, e ne aveva già riattivati due nel 2012.
Rimangono inoltre molti disagi quotidiani anche per chi abita nelle aree più colpite dallo tsunami, in particolare a Fukushima o nei suoi dintorni. I livelli di agricoltura e pesca non sono ancora tornati al livello pre-tsunami, complice anche la diffidenza dei consumatori per i prodotti che provengono dalle aree colpite. Come abbiamo sottolineato, molte persone non sono ancora state autorizzate a tornare nella propria città d’origine, mentre molti che potrebbero farlo sono ancora indecisi, per paura delle radiazioni.
Alcuni volontari e attivisti hanno fatto notare come l’incidente di Fukushima abbia fatto sorgere un trade-off: la spinta per produrre energia pulita ha ridisegnato il paesaggio della stessa Fukushima, dove i pannelli solari prendono il posto dei campi di riso e molte montagne sono state scavate per ottenere materiali per la ricostruzione. La riconversione energetica sembra passare comunque per la distruzione della natura.
L’impressione è quindi di una rinascita incompiuta, o mancata. Alcuni studiosi evocano come spiegazione l’atteggiamento tipicamente giapponese di accettare la realtà come viene, in un misto di rassegnazione e stoicismo, che però avrebbe come inconveniente quello di rendere di fatto il cambiamento difficile. Shikata ga nai, non c’è nulla da fare, è così e basta.
Tuttavia, non va sottovalutato l’impatto che gli avvenimenti di quel fatidico 11 marzo 2011 hanno avuto sull’immaginario e la coscienza della popolazione. La consapevolezza derivata dallo shock ha liberato energie e dibattiti pubblici prima impensati, senza contare la spinta sempre maggiore dei singoli per ridare vita alle zone più colpite.
Tra poco fioriranno i ciliegi anche a Fukushima.
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