Quando parliamo di Unione europea, c’è un problema di fondo da mettere in luce: il reale stride con un'eredità politica, culturale e ideale di cui tutti vorrebbero appropriarsi ma che sembra, nei fatti, essere ignorata completamente.
È solo un problema di “figli” che non sono stati all’altezza delle aspettative dei “padri fondatori”?
Troppo semplicistico: tutti gli errori, anche quelli politici, vengono commessi da uomini, che possono agire in un certo modo perché mossi da ideologie fallimentari. Qual è il modo migliore per difendere un'ideologia se non fingere che essa non lo sia? Perché non nasconderla con riferimenti a personaggi politici del passato, così stimati da godere perfino della stima dei loro avversari?
Questa strategia è particolarmente efficace, perché rende impossibile un dibattito pubblico serio e corretto: se questo è il migliore dei mondi possibili, allora non avrà senso immaginare un futuro diverso, né chiedersi se le cose potevano andare diversamente.
Per combattere ad armi pari quei “finti europeisti” che invocano troppo spesso il Manifesto di Ventotene (tra l’altro a sproposito) dobbiamo effettuare un'operazione intellettuale rigorosa. Solo questo sforzo ci può permettere di individuare quella filosofia economica e politica che, convincendo tutti con le sue sirene, ha impedito che divenissero realtà gli ideali di chi, invece, aveva veramente sognato un'Europa democratica, unita, sociale e solidale. Bisogna andare a fondo di questa ideologia, che da un lato si fa vanto di essere democratica, ma al contempo trasfigura la tecnica in una sorta di religione universale.
Qual è allora la vera ideologia di Maastricht?
Ordoliberalismo 2.0
Il Trattato di Maastricht è caratterizzato dall’adesione, spesso esplicita, a un filone del neoliberismo nato negli anni Trenta del secolo scorso con la scuola di Friburgo, in seguito indicato con il termine “ordoliberalismo”.
L’idea fondamentale di questo approccio è di garantire e tutelare, con certe istituzioni e rigide regole, un “ordine” imperniato sulla concorrenza del mercato, sulla proprietà privata e sulla stabilità monetaria.
Tale dottrina, successivamente rielaborata da Wilhelm Röpke, consigliere di Konrad Adenauer e del ministro tedesco Ludwig Erhard, ebbe grande fortuna nella Germania del dopoguerra e si distinse, sotto la successiva denominazione di “economia sociale di mercato”, per un programmatico rifiuto di certe forme di pianificazione diretta dall’autorità statale.
Insieme a tutto ciò, alla base della costruzione europea cristallizzata nei trattati, confluì anche la dottrina del cosiddetto Washington consensus, con i suoi richiami alle privatizzazioni e alla riduzione della spesa pubblica.
Avendone così dissodato il sottosuolo ideologico, appaiono in tutta la loro nitidezza i riferimenti prima a una “moneta unica e stabile” e a una “crescita non inflazionistica” contenuti nel Trattato di Maastricht; e poi, compiutamente nel Trattato di Lisbona, a uno sviluppo incentrato “su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva”1Articolo 3.3 TUE. e, precisamente, a regole di concorrenza volte a limitare le prerogative statali.
Come nell’ordoliberalismo, così anche in questi trattati non mancano accenni all’occupazione e alla protezione sociale. Eppure, esse sono considerate un esito naturale dell’“ordine”. Quindi, risultano sempre subordinate al mantenimento della stabilità dei prezzi2Ex art. 105 TUE., sulla quale si impernia la politica monetaria portata avanti dalla Banca centrale europea e riaffermata continuamente tanto nello statuto del Sistema europeo delle banche centrali, quanto nel Trattato di Lisbona.
Dalla teoria alla pratica
Tutte queste idee, lungi dall’essere rimaste in abstracto, si sono altresì realizzate in politiche economiche concrete - in ossequio ai tanto noti quanto scientificamente infondati parametri del 3% e del 60%, contenuti in uno dei protocolli allegati al Trattato di Maastricht e suggellati nel Patto di stabilità e crescita. Si tratta della cosiddetta “austerità espansiva” (una politica di bilancio restrittiva che, secondo i suoi teorici, avrebbe dovuto avere effetti benefici sull’economia) e, contestualmente, della flessibilizzazione del lavoro.
In accordo a quel che già Keynes scriveva nel capitolo XIX della sua Teoria, tali politiche hanno inasprito i problemi legati alla disoccupazione, alla distribuzione funzionale del reddito e alla produzione industriale. Infatti, hanno impedito l’adozione da parte dei governi di politiche fiscali espansive a sostegno della domanda effettiva mediante la spesa pubblica (deficit spending): politiche prescritte (specialmente in funzione anticiclica durante i periodi di crisi) dall’interventismo keynesiano del secondo dopoguerra al fine di stimolare la propensione al consumo (vero motore dell’occupazione).
A fronte di un’Unione Europea strutturalmente divisa in Stati membri in competizione fra loro e incapace finora di riformare le proprie criticità, s’impone in tutta la sua attualità quanto asseriva Keynes:
“È il perseguimento simultaneo di questa politica [di un programma nazionale di investimento diretto ad un livello ottimo di occupazione interna] da parte di tutti i Paesi assieme che è atto a restaurare nel campo internazionale la salute e la forza economica”.
***
Questo articolo è il terzo episodio della "Guida rapida all'Europa di Maastricht" a cura di Kritica Economica.
Clicca qui per leggere gli altri contributi e per consultare la bibliografia di riferimento.