“Non c’è niente di peggio per una nazione che prendere in prestito denaro dall’estero”, confidò Ulysses Grant all’Imperatore Meiji durante la sua visita nell’agosto del 1879.
Dopo avergli fornito numerosi esempi di nazioni in quell’epoca asservite al debito in valuta estera, il diciottesimo presidente americano (1869-1877), suggerì all’ospite di liquidare rapidamente quello del suo paese, soprattutto perché non era ancora eccessivamente oneroso: “Prima il debito sarà rimborsato, meglio sarà per il Giappone. E’ auspicabile che il vostro paese non si indebiti più con l’estero”. Queste parole non erano rivolte all’orecchio di un sordo e i giapponesi hanno imparato la lezione. Parole che oggi però non trovano riscontro nei paesi africani, ad eccezione dell’Algeria, un paese ricco di idrocarburi e che ha il rapporto debito pubblico/PIL più basso del continente.
Distinguere le mele dalle pere
Nel vertice Giappone-Africa avvenuto nel 2018, il governo nipponico aveva espresso la sua preoccupazione sul tema dell’indebitamento nel continente. In quell’anno il rapporto debito pubblico/PIL africano era del 50%.
Mosso dalla sua foga panafricana, un noto economista si indignò sui social network contestando che il Giappone avesse il coraggio di dare lezioni ai governi africani quando il suo debito pubblico superava notevolmente il 200%. Come potevano i rappresentanti giapponesi permettersi questo atteggiamento altezzoso quando il loro debito pubblico era almeno quattro volte superiore alla media africana, si domandò?
Purtroppo il nostro, proprio come la stragrande maggioranza dei rispettati economisti tradizionali, non considerava una distinzione elementare – tuttavia cruciale – tra debito in valuta nazionale e debito in valuta estera.
Lo Stato giapponese si indebita con la sua propria moneta. Proprio come tutti i governi che emettono moneta, il Giappone non può mai rimanere a corto di denaro (ovvero di entrate elettroniche sui conti bancari). Pertanto non potrà mai trovarsi in difficoltà nell’onorare le obbligazioni denominate nella sua valuta. Questa indipendenza finanziaria permette al Giappone di essere libero da vincoli di finanziamento intrinsechi nella sua valuta e di determinare i tassi di interesse con cui si indebita. I deficit di bilancio sono quindi finanziati in yen.
Al contrario, nella maggior parte dei paesi africani il debito pubblico è denominato principalmente in valuta estera. Se questi paesi non posso essere insolventi nella propria valuta, possono esserlo con quella estera.
Quando un paese africano si indebita in dollari, dovrà trovare dollari per rimborsare il proprio debito al momento del pagamento. Questo perché di norma i suoi creditori non accettano la sua valuta nazionale. Per essere in grado di rimborsare il debito, il paese africano dovrà generare ulteriori flussi in entrata di moneta esterna aumentando le esportazioni. Per fare ciò le sue esportazioni dovranno superare le importazioni, con il risultato di un saldo commerciale positivo. In qualche modo le entrate derivanti dalle esportazioni sono un modo per finanziare le importazioni.
Mantenere il surplus commerciale però non è affatto facile. Da un lato, i paesi africani esportano principalmente materie prime, le quali hanno due particolarità: i loro prezzi sono instabili e sono determinati all’estero. Quando i prezzi dei prodotti di esportazione sono favorevoli, aumenta la capacità di indebitarsi con l’estero e a rimborsare suddetto debito. Quando invece i prezzi sono sfavorevoli, la capacità di questi paesi di rimborsare il debito si deteriora e le loro valute si svalutano all’intensificarsi delle fughe di capitali. È questo che fa aumentare il peso del debito estero e rende più complicato il rimborso.
Da un altro lato questi paesi dipendono da una serie di importazioni essenziali: anche se i prezzi di tali beni di importazione aumentano, la domanda resta invariata o comunque non diminuisce significativamente. Nel lungo periodo i prezzi dei manufatti importati dai paesi africani evolvono in maniera più favorevole rispetto ai prodotti di esportazione. È così che si definisce il famoso “deterioramento delle condizioni commerciali”, ovvero, per acquisire lo stesso paniere di importazioni, i paesi africani devono esportare molto di più.
Con l’attuale pandemia del coronavirus, molti paesi africani che negli ultimi dieci anni si sono indebitati in valuta estera in misura irragionevole, si ritrovano in uno stato di quasi-insolvenza. Il drastico calo dei prezzi dei loro prodotti di esportazione, insieme alla svalutazione del tasso di cambio e il rallentamento dell’attività economica in tutto il mondo, li costringe ad una situazione finanziaria di estrema precarietà. Devono cioè rimborsare un debito estero quando le loro esportazioni sono diminuite brutalmente.
L’esempio del Senegal
Per quanto riguarda la capacità sistematica di generare avanzi commerciali, possono essere distinti due gruppi di paesi africani: il primo, coloro che mediamente sono meritevoli di credito. Sono quei paesi che possono onorare il proprio debito grazie ad avanzi commerciali ricorrenti, tuttavia non sono immuni a condizioni economiche avverse che possono eventualmente ridurre la loro disponibilità in valuta estera. È il caso dei paesi produttori di petrolio. Il secondo gruppo riguarda invece i paesi che non possono pagare il debito estero con il solo surplus commerciale e quindi devono trovare altri strumenti. Stiamo parlando di tutti i paesi nell’Africa Occidentale che utilizzano il franco CFA, eccezion fatta per la Costa d’Avorio.
Consideriamo il caso del Senegal. La sua bilancia commerciale ha un deficit strutturale dal 1967. Nel 2019 le sue esportazioni erano nell’ordine di 2000 miliardi di FCFA contro i 4200 miliardi FCFA di importazioni, dunque un deficit commerciale di 2200 miliardi FCFA. Come può il Senegal pagare il suo debito con l’estero in queste condizioni? Dovrà disperatamente attirare capitali stranieri: investimenti diretti esteri (IDE) e ancora più indebitamento.
Gli IDE però non risolvono il problema. Al contrario, lo aggravano. Trattandosi di investimenti prevalentemente su progetti di infrastrutture, telecomunicazioni eccetera, non stimolano le esportazioni, il loro effetto è piuttosto un ulteriore deterioramento della bilancia commerciale (per via delle importazioni di attrezzature, tecnologie etc…). Inoltre gli IDE si traducono in una "esportazione" annua dei profitti: commissioni esorbitanti pagate a esperti stranieri, manipolazioni contabili per coprire trasferimenti illeciti. Così si alimenta l’emorragia finanziaria.
Questi meccanismi perversi non hanno però frenato l’ardore dei cosiddetti governi liberali dal desiderio di “attirare gli IDE”. L’aiuto allo sviluppo pubblico è stato spesso correlato all’esecuzione di questi progetti controllati dai donatori, ma rientra tutto nella stessa logica. Questi progetti tendono a far peggiorare il disavanzo della bilancia commerciale e inducono infine al dissanguamento finanziario.
In questo contesto, per rimborsare il proprio debito estero e facilitare il rimpatrio dei profitti realizzati in moneta locale (e che dovranno quindi essere convertiti in valuta estera), il Senegal non ha altra possibilità se non di re-indebitarsi sistematicamente. Perché questa strategia funzioni, il Senegal dovrà fare tutto il possibile per mantenere la "fiducia" dei suoi creditori ottenuta tramite politiche di bilancio ortodosse (scarsi deficit di bilancio) e discriminatorie (il pagamento regolare del debito estero ha la priorità sul rimborso del debito interno e sulla spesa sociale). Il risultato è l’erosione della sovranità di questi paesi a beneficio del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Questa strategia non è sostenibile. Presto o tardi arriverà il momento in cui il paese non sarà più in grado di pagare il debito a meno che non compia sacrifici socialmente inaccettabili.
Nel linguaggio finanziario lo schema Ponzi è il nome di una truffa che consiste nel finanziare gli interessi dovuti agli investitori (nel nostro caso il debito in essere) con il denaro di nuovi investitori attratti da prospettive di guadagni elevati (nel nostro caso l’emissione di nuovi crediti). A un esame più attento, questa è stata la strategia del Senegal dal 1960 in poi: indebitamento continuo in valuta estera finanziato tramite indebitamento permanente in valuta estera. Questo fenomeno è stato mascherato/attenuato per due decenni attraverso i trasferimenti della sua diaspora (nel 2019 intorno al 10% del PIL).
Insegnamenti
Come un caso da manuale, l’esempio del Senegal ha un triplo interesse. Innanzitutto, è la dimostrazione eloquente che una strategia di sviluppo basata unicamente sui finanziamenti esteri è inevitabilmente controproducente (nel lungo periodo, dal 1960 al 2015, il reddito pro capite reale del Senegal non ha visto progresso alcuno). Bisogna dire le cose chiaramente: la finanza internazionale è parte del problema. Questa può giocare un ruolo realmente positivo per i paesi che puntano sulla mobilitazione delle loro risorse interne (un concetto che non va ridotto all’aumento del peso delle imposte sul PIL) e che privilegiano i finanziamenti locali. Ciò presuppone che i governi abbiamo un controllo effettivo sul sitema creditizio – chi riceve credito e a quale tasso? – che non dovrebbe essere mai lasciato nelle mani degli investitori privati.
In secondo luogo, il caso del Senegal consente di pesare i vincoli (tra cui l’erosione della sovranità) a cui i paesi privi di valuta propria devono sottostare in tempi di crisi.
Essendo membro di un’ unione monetaria (la UEMOA), il Senegal ha sul piano finanziario lo status di autorità locale (o di colonia se vogliamo essere più precisi). Al contrario degli stati che emettono la loro moneta, la particolarità delle autorità e delle colonie locali è quella di affidarsi alle tasse e alle imposte. Gli stati hanno la possibilità di spendere senza vincoli sull’ammontare delle imposte e delle tasse che riscuotono: per spendere devono solo chiedere alla loro banca centrale di accreditare delle somme sui propri conti bancari. Visto che il governo del Senegal non ha una propria moneta, non ha la possibilità di attingere alla sua banca centrale, come invece fanno i paesi ricchi e alcuni paesi emergenti per rispondere alla crisi in corso.
Inoltre non ha il controllo sui tassi di interesse delle obbligazioni che emette in franchi CFA. Ma i tassi di interesse sul debito emesso in franchi CFA sono spesso superiori a quelli praticati nei mercati finanziari internazionali. Così paesi come il Senegal e la Costa d’Avorio preferiscono indebitarsi in valuta estera espondendosi al rischio di cambio (rischio legato alle variazioni dei tassi di cambio).
Solamente governi per i quali la sovranità non è altro che una parola possono accettare questa situazione.
In sintesi, il governo del Senegal, come anche quelli di altri paesi UEMOA, non ha alcun controllo sull’allocazione del credito. Sono le banche straniere che decidono chi ha diritto a che ammontare di credito e a che tasso. Da cui l’esclusione del credito bancario all’agricoltura e delle PMI, fondamenti della prosperità.
Con la pandemia di coronavirus, questa assenza di sovranità monetaria ha delle implicazioni immediate. Il governo non può affidarsi agli introiti delle tasse a causa della recessione economica, così le possibilità di spendere per far fronte alle sfide sanitarie ed economiche dipendono ancora una volta dalla generosità estera: cancellazione del debito, moratorie, sostegno allo sviluppo, ancora più indebitamento. Nell’attuale configurazione – dalla quale è fondamentale uscire – il Senegal non ha il destino nelle sue proprie mani. Dovrà tenderle all’esterno ancora una volta. Come scrisse nel 1992 il brillante economista britannico Wynne Godley:
Il potere di emettere la propria moneta e la capacità di attingere alla propria banca centrale, sono gli elementi fondanti dell’indipendenza nazionale. Se un paese abbandona o perde questo potere, acquisisce lo status di autorità locale o colonia.
Numerosi paesi africani che dispongono di una valuta nazionale sono comunque costretti a tendere le mani all’estero. Hanno un vantaggio rispetto al Senegal che però non sono in grado di utilizzare: non hanno alcun vincolo finanziario intrinseco nella propria valuta. In linea di principio possono finanziare con il loro denaro qualsiasi progetto che coinvolga le risorse locali che controllano. Per esempio, se la Guinea avesse tutte le competenze e i materiali per costruire una fabbrica farmaceutica, non avrebbe alcun vincolo nel finanziare tale progetto in valuta guineana e la sua banca centrale potrebbe facilitare il proceso. Ovviamente rari sono i paesi africani che hanno una politica risoluta di mobilitazione delle risorse locali. Ciò richiederebbe una tale determinazione politica che è scomparsa nel continente in seguito all’assassinio di Thomas Sankara nel 1987.
Infine, il caso del Senegal permette di capire che il debito in valuta straniera è più una manifestazione che una causa del sottosviluppo.
L’entrata nell’economia mondiale con una sovranità monetaria limitata o inesistente, un’importante apertura commerciale, il dominio nei settori chiave da parte del capitale straniero, strutture sociali diseguali con un modello di accumulazione in cui il progresso economico è esclusivo godimento di una minoranza della popolazione che consuma prevalentemente prodotti importati.
Finché questa struttura di dipendenza sarà mantenuta, una cancellazione del debito esterno – ammesso che questo sia possibile – non cambierà nulla. Permetterà ai governi giusto un po’ di spazio fiscale a breve termine per non soffocare ulteriormente le popolazioni già indebolite.
Traduzione dal francese di Giorgio Michalopoulos
[…] In questo modo ridurremo contemporaneamente i deficit e gli avanzi che durante i periodi di ripresa, i periodi di crescita economica globale, creano tensioni, e durante i periodi di crisi aumentano le enormi disuguaglianze, gli aggiustamenti asimmetrici e quindi le crisi del debito nel Terzo Mondo e nei paesi in via di sviluppo. Quindi riduciamo questi squilibri e nel processo generiamo investimenti verdi globali, soprattutto nel Sud Globale. […]
[…] the periods of crisis are creating huge inequalities and asymmetric adjustments and therefore debt crisis in the Third World and the developing countries. So we bring those imbalances down and in the […]