Nella seconda parte del nostro approfondimento sulle privatizzazioni in Italia (puoi leggere la prima parte qui) sfatiamo alcuni miti a cui la stampa mainstream ha spesso fatto eco.
1. "L'Italia è un Paese statalista"
È un’opinione ancora estremamente diffusa che l'Italia sia un Paese profondamente statalista e che molti dei suoi problemi siano riconducibili a questo. Per crescere dovremmo dunque ridurre l’ingerenza dello Stato, come negli altri Paesi europei. Tuttavia, questa narrazione non è esatta.
Secondo l'Istituto Bruno Leoni, un think tank di orientamento liberista, l'Italia si colloca sesta su ventotto Paesi dell’Unione Europea nell’indice delle liberalizzazioni, superando di netto molti Paesi considerati virtuosi, come la stessa Germania. Un risultato notevole, il quale conferma che il mito per cui l’Italia è un Paese con un enorme settore pubblico inefficiente e dove lo Stato esercita un controllo invasivo sull’economia è privo di fondamento fattuale.
Quello che possiamo dire con certezza è che il nuovo modello economico adottato dall'Italia a partire dagli anni '90, fatto di flessibilizzazione del mercato di lavoro, privatizzazioni delle aziende pubbliche, liberalizzazioni e compressione dei salari, non ha portato i risultati sperati in termini di crescita.
Purtroppo, i risultati raggiunti, come la maggiore internazionalizzazione delle imprese, l’aumento del giro di affari dei mercati azionari, la maggiore finanziarizzazione dell’economia e la riduzione del debito pubblico nella fase delle privatizzazioni non sono riusciti a migliorare la condizione complessiva del Paese né tantomeno quella dei lavoratori.
2. "In Italia non si è privatizzato abbastanza"
Si potrebbe ribattere che in Italia si è privatizzato sì, ma solo in modo fittizio. Infatti, lo Stato, attraverso la golden share, controlla ancora buona parte dell’economia italiana. Dunque, occorrerebbe spingere ancora di più il pedale delle privatizzazioni e liberalizzazioni.
In realtà, abbiamo privatizzato molto più di Francia e Germania. Come riporta l’Osservatorio per i conti pubblici, il valore delle partecipazioni pubbliche in percentuale al PIL nel 2019 è circa la metà di quello di tali Paesi. D’altro canto, se guardiamo nello specifico cosa è avvenuto allo strumento della golden share durate la fase delle privatizzazioni, questo potere di controllo senza proprietà dell’azienda è stato estremamente depotenziato.
Il caso delle banche
Per quanto riguarda il comparto bancario, esso è stato sottoposto fin da subito ad una privatizzazione più radicale rispetto agli altri settori e con la legge del 30 luglio 1994, “viene a cessare ogni vincolo di controllo sulle imprese bancarie risultanti dalla trasformazione delle banche pubbliche”, ovvero il cosiddetto golden share (Cassese, 1997). La nostra proprietà di banche pubbliche si è pressoché azzerata, mentre Francia e Germania hanno ancora una certa parte del settore bancario di proprietà pubblica.
Le intenzioni del legislatore erano quelle di mantenere una presa maggiore sulle società con partecipazione pubblica in via di privatizzazione: a tal proposito, la legge del 30 luglio 1994 chiariva che lo Stato doveva mantenere dei poteri speciali che consistevano nel “veto alle delibere di scioglimento, trasferimento, fusione, scissione, trasferimento della sede all'estero, cambiamento dell'oggetto sociale; nomina di almeno un amministratore o di un numero di amministratori non superiore a un quarto dei membri del consiglio e di un sindaco.” (Cassese, 1997).
Dunque, la legge del 30 luglio 1994, in combinazione con l’articolo 2449 del Codice civile, permetteva allo Stato di avere ancora un certo controllo sulle società con partecipazione pubblica attraverso la golden share. Tuttavia, questo combinato disposto contrastava con l’ex art. 56 CE (art. 63 TFUE) per cui “sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”.
A seguito di una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il combinato della legge del 30 luglio 1994 e dell’articolo 2449 venne ridimensionato, riducendo così il potere dello Stato nelle partecipate, in quanto giudicato dalla Corte sproporzionato rispetto alla sua partecipazione azionistica. In seguito, l’articolo 2449 del Codice civile è stato modificato con la Legge n. 34 del 25 febbraio 2008, introducendo un criterio di proporzionalità e depotenziando notevolmente i poteri di controllo senza proprietà che lo Stato deteneva.
3. "Le privatizzazioni hanno reso più efficiente il sistema"
Se gli effetti positivi delle privatizzazioni sono dubbi, esse sono state almeno attuate in modo trasparente e a un prezzo equo per lo Stato, generando maggiore efficienza?
No. Come evidenzia la Corte dei Conti, le procedure di privatizzazione sono state in larga parte eseguite in modo poco trasparente e a prezzi bassi, a danno della crescita del nostro sistema economico. Tale danno si è tradotto sia in termini di mancato incasso da parte dello Stato, sia, ancor peggio, nel fornire un incentivo agli investitori ad acquistare un’azienda ad un prezzo molto basso non pagando il cosiddetto premio di controllo, trasformando così, come sostiene Fabrizio Barca, i capitalisti da innovatori a rentier, non avendo più incentivo economico ad innovare un’azienda che possono rivendere ad un prezzo molto più alto.
Conclusione
Tutto questo ci insegna quanto sia estremamente ideologizzato l’approccio all’analisi delle privatizzazioni in Italia, e quanto lavoro ci sia da fare per consegnare al nostro Paese una narrazione veritiera di quanto accaduto in quegli anni. È importante valutare gli esiti delle privatizzazioni rispetto agli interessi della classe lavoratrice, che dal processo di privatizzazione non ha avuto pressoché alcun beneficio.
Le valutazioni delle policy hanno sempre un carattere di classe, per questo è del tutto naturale che buona parte del sistema dei media e della politica, espressione diretta degli interessi della classe dominante, tessa lodi delle privatizzazioni: sanno che le élite finanziarie ci hanno guadagnato enormemente e si rallegrano del fatto che la sparuta minoranza che domina il nostro sistema economico abbia vinto. Per tutti gli altri, non vi è nulla di cui rallegrarsi.
1) l’indice delle liberalizzazioni di IBL riguarda solo alcuni settori e non l’intera economia. Se vediamo indici più completi come quelli sull’Economic Freedom di Heritage e Fraser, i risultati dell’Italia raccontano una storia ben diversa: risultiamo tra i paesi meno economicamente liberi tra tutti i paesi “occidentali”;
2) come dice la stessa nota di OCPI che citate nell’articolo:
“In realtà, il minor peso delle imprese pubbliche in Italia
rispetto al Pil riflette in larga misura le caratteristiche del tessuto produttivo
italiano, caratterizzato da tante piccole e medie imprese. Tuttavia, se si
considera il comparto delle maggiori imprese, quelle che possono svolgere un
ruolo strategico, le partecipate pubbliche hanno già un peso simile in Italia
rispetto alla Francia (e superiore a Germania, Spagna e Regno Unito). Quindi, il
nostro Stato imprenditore non è poi così sottodimensionato rispetto a quanto
accade negli altri principali paesi europei, anzi.”
Alla luce di questi punti, le vostre considerazioni finali vacillano.
[…] approfondimento è parte di una serie di due articoli sul processo di privatizzazione in Italia. Qui trovi il secondo […]