Era il 17 settembre 2011, gli animi erano infuocati e centinaia di attivisti stavano marciando lungo il Financial District di New York: era l’inizio di quello che sarebbe da lì a poco divenuto il movimento “Occupy Wall Street” (OWS), nato da un appello online partito dal Canada. A marcia terminata, i manifestanti si accamparono pacificamente per circa due mesi a Zuccotti park, ribattezzata Liberty Square dagli occupanti, nei pressi della Borsa di New York. Le proteste contro le disuguaglianze si diffusero quindi in molte altre città degli Stati Uniti; alcune rimasero di dimensioni locali, ma tutte furono spinte dallo stesso fermento generale. Il 15 ottobre 2011 la mobilitazione culminò a livello internazionale: vennero toccate oltre 790 città, in 71 diversi paesi, anche grazie alla forte risonanza mediatica provocata dall’evento, oltre che ad un sentimento generale di simpatia verso i dissidenti da parte dell’opinione pubblica.
Fra le file degli “indignados” statunitensi, lo slogan più comunemente impresso era “We are the 99%”: l’obiettivo fortemente antigerarchico dei partecipanti era quello di denunciare l’asimmetria economica tra il top 1% più ricco (in particolare l'élite finanziaria di Wall Street) e il resto della popolazione.
A guidare i manifestanti era dunque un’idea di “bene politico”, basato principalmente sulla promozione di una maggiore giustizia sociale ed equità contro la corruzione e l’immobilismo di una classe dirigente che non era stata capace di far fronte al problema nella distribuzione delle ricchezze. La “Grande recessione”, infatti, aveva portato ad un rallentamento della crescita, al deterioramento dei salari dei lavoratori e all’innalzamento dei tassi di povertà. La frattura tra i più i ricchi e i più poveri, o meglio tra il “top” e il “bottom”, si faceva sempre più profonda.
Solo il capitale sembrava uscirne illeso e i suoi possessori sempre più ricchi: i primi 100 ultramiliardari del mondo, infatti, avevano visto aumentare la propria ricchezza in maniera vertiginosa, con una crescita da 241 miliardi di dollari a 1.900 miliardi di dollari, mentre solo 16 ne avevano registrato un calo rispetto l’anno precedente (Bloomberg Billionaires Index, 2012).
Il movimento OWS aveva quindi contribuito per mesi a diffondere il tema delle disuguaglianze all’interno del dibattito pubblico statunitense: come disse il filosofo Slavoj Žižek – intervenuto a Liberty square – si era rotto definitivamente un tabù ed era «come nei cartoni animati quando il personaggio continua a correre finché non si accorge di avere il vuoto sotto, la vostra presenza (dei manifestanti, ndr) qui sta dicendo ai potenti di Wall Street “Ehi! C’è il vuoto sotto di voi!”».Due mesi dopo però, l’accampamento dei manifestanti fu sgomberato dalla polizia di New York: in mancanza di leader carismatici, obiettivi specifici e di una struttura fisica dove dare concretezza alle proprie idee, il movimento andò a scemare, senza riuscire a fornire alternative possibili.
L’anno successivo alla manifestazione, il premio Nobel per l’Economia Joseph E. Stiglitz pubblicò Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro. In quest’opera, l’economista americano evidenziava come, a partire dagli anni precedenti alla crisi finanziaria, una grossa fetta dei guadagni del reddito nazionale totale made in USA era finito nelle tasche del ristretto club dell’1%: l’economia era efficiente, il PIL in crescita, ma non per tutti. La sua distribuzione era sempre più concentrata nelle mani di pochi, con gli ultra-miliardari che restavano quasi gli unici ad arricchirsi (per oltre il 90%) dagli eventuali segnali deboli di ripresa dalla crisi.
Lo sviluppo della cosiddetta “società dell’1%” non era quindi solo il prodotto naturale ed inevitabile delle regole del mercato né tantomeno un fenomeno correlato positivamente alla crescita, piuttosto si trattava del frutto di determinate scelte politiche degli anni ‘80 che avevano travolto le classi più deboli, reso stagnanti i redditi della classe media e avevano invertito la tendenza nella diminuzione delle disuguaglianze conosciuta nel ventennio precedente. Secondo Stiglitz, dopo quarant’anni di neoliberalismo sfrenato, era necessario un cambio di rotta, individuato nel capitalismo progressista, per squarciare il legame fra potere economico e l’influenza politica, con lo Stato che doveva arrivare là dove il mercato falliva.
L’opera non ebbe il successo che si sarebbe dovuta meritare; tuttavia, il tema delle disparità tra ricchi e poveri non tardò ad occupare una posizione rilevante nel dibattito economico. Era il 2013 e un economista francese e professore nell’Ecole des hautes études en sciences sociales, fino ad allora semisconosciuto, Thomas Piketty, lanciò la sua opera monumentale – Il Capitale nel ventunesimo secolo – pubblicata per la prima volta in Francia e divenuta, una volta tradotta in inglese, un best seller in tutto il mondo, tanto che l’Economist arrivò addirittura a definire Piketty come Bigger than Marx.
Era più la centralità della critica al capitalismo che la vicinanza al comunismo ad accomunare i due, con la nozione di “Capitale” che tornava a riaffermarsi nel vocabolario economico, accompagnata dalla profezia di un possibile ritorno ad un capitalismo in stile ottocentesco più che di un suo inevitabile crollo. Nel suo studio, Piketty era quindi riuscito a mettere definitivamente fuorigioco l’idea della trickle down economics, secondo la quale i benefici economici a favore dei ricchi (in termini di regimi fiscali agevolati) avrebbero dovuto avere delle ricadute positive sul benessere dell’intera società, comprese le fasce della popolazione più deboli.
Al centro delle sue analisi economiche, dominate da tabelle, trend storici e numeri, stava l’idea che il rapporto tra capitale e reddito si fosse sviluppato a favore del primo: a partire dal 1980, infatti, la ricchezza finanziaria e quella patrimoniale erano cresciute a livello percentuale più rapidamente del reddito nazionale. I ricchi, quindi, stavano diventati sempre più ricchi non tanto perché accumulavano ricchezza, quanto perché la ereditavano, e così facendo conservavano la loro posizione, verso la graduale costituzione di un capitalismo oligarchico. Il merito indiretto di Piketty è stato quindi quello di aver sollevato a livello di mainstream il problema della disuguaglianza globale e di aver favorito indirettamente la diffusione di lavori di molti altri economisti che fino ad allora erano rimasti conosciuti solo nei ristretti ambienti accademici.
In questo senso, è necessario ricordare sicuramente lo studio magistrale per la World Bank del 2012, portato a termine dall’economista serbo Branko Milanović dopo anni di ricerca presso gli archivi di tutto il mondo. Il suo famoso grafico dalla “curva a proboscide” o a forma di elefante (dalla sagoma che assume la figura), presentata nel suo libro "Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media", ha consentito di guardare agli effetti della globalizzazione sulla disuguaglianza mondiale, permettendo di comprendere quali strati della popolazione hanno ricevuto i maggiori benefici.
L’originalità del suo lavoro è stata quindi quella di considerare il mondo come un unicum, congiungendo le disuguaglianze within countries e quelle internazionali per poi soffermarsi su ogni singolo decile di reddito e vedere la sua evoluzione nell’arco di tempo preso di riferimento. Dal suo studio, Milanović è arrivato quindi a concludere che a livello globale, il fattore decisivo nel determinare in grossa misura la traiettoria del proprio reddito, torna ad essere il paese o luogo in cui si è nati. Infatti, anche se la disuguaglianza mondiale nei redditi sembrerebbe generalmente diminuita, la disuguaglianza a livello nazionale è aumentata quasi ovunque.
L’ultima figura fondamentale sulla quale è doveroso soffermarsi è quella di Anthony Atkinson (1944-2017): non solo uno dei primi economisti ad occuparsi della tematica della disuguaglianza, ma anche (o quasi) un filosofo morale e della speranza. Le sue opere, infatti, non solo hanno riportato un’analisi sull’allargamento del divario tra il 99% e l’1%, ma sono state anche vera e propria ricerca di una possibile soluzione, sacrificando da un lato l’impostazione “accademica” – come affermato dallo stesso Piketty – per garantire l’accessibilità a tutti i potenziali lettori, senza però rinunciare ad un solido apparato analitico.
Il focus dell’opera è un vero e proprio piano d’azione unito ad un ripensamento nel modo di affrontare la problematica delle disuguaglianze, elencando una serie di misure efficaci per contrastare la povertà e permettere al bottom più povero di tornare in carreggiata. L’economista britannico evoca infine l’ottimismo dell’alternativa, controcorrente al diffuso pessimismo, ponendo al centro il campo dell’azione pubblica e innalzando l’asticella della responsabilità politica.
Oggi, l’interesse per le ingiustizie sociali sembra essere tornato nuovamente in vita: lo dimostrano il conferimento del premio Nobel per l’economia del 2015 allo scozzese Angus Deaton, che dedicò la maggior parte della sua ricerca allo studio della disuguaglianza e della povertà attraverso l’utilizzo di variabili microeconomiche (quali le scelte di consumo individuali), e di quello recentemente riconosciuto agli economisti Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer, che hanno fornito un approccio sperimentale nella lotta alla povertà globale.
D’altro canto, le reazioni dei governi a livello nazionale e sovranazionale nel contrastare le disuguaglianze, sono state deboli o inconsistenti, mentre noi, come cittadini, abbiamo assunto un atteggiamento di passiva accettazione. Nell’immaginario comune, infatti, l’evoluzione del sistema economico negli ultimi decenni ha progressivamente condotto all’implicito diktat “l’efficienza precede l’equità”, accettando come naturale l’ordine esistente delle cose, come se le disuguaglianze economiche fossero il prezzo da pagare per garantire la continua crescita delle nostre economie avanzate.
Le manifestazioni transazionali contro elementi di crisi generati dal sistema capitalistico non sono mancate, nonostante tutto. Le iniziative di mobilitazione a favore dell’ambiente hanno trovato terreno fertile in Europa, unite dalla figura simbolo della svedese Greta Thumberg. Tuttavia, è venuto a mancare un epicentro in stile OWS per diffondere il proprio dissenso e allo stesso tempo non si è generata una maggiore spinta di continuità, in grado di scuotere concretamente le coscienze politiche europee. Come afferma lo stesso Fabrizio Barca, coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità: «Non ci può essere ecologia senza giustizia sociale».
La posta in gioco è molto alta perché il modello neoliberista della «crescita per la crescita» non solo necessita di essere accompagnato da un ripensamento, ma anche da una decolonizzazione dell’immaginario, ricercando e costituendo nuove categorie di pensiero che forniscano un substratum per future agende politiche che si preoccupino di limitare l’eccesso in ogni ambito: da quello riguardante l’utilizzo di materiali inquinanti (in nome di una filosofia più green) fino ad arrivare alla stessa concentrazione della ricchezza (a favore di politiche di preredistribution e quindi di un’equitable growth).
È necessario stimolare nuovamente un più ampio dibattito sull’iniquità, che non si limiti ai ristretti ambienti accademici, ma si diffonda fra le coscienze degli individui attraverso l’utilizzo di un linguaggio comprensibile anche ai “non addetti ai lavori”. L’informazione deve farsi veicolo di diffusione della consapevolezza a livello orizzontale, per continuare a “tenere a galla” il problema delle disuguaglianze ed elevarlo a urgenza, con l’obiettivo di esercitare una spinta verticale che possa penetrare nel territorio della politica.
I modelli recenti di tassazione di Belgio e Spagna ne sono un esempio; l’obiettivo è introdurre questi temi nelle agende dei decisori politici a livello globale. La soluzione non è semplice, ma dimenticare il problema non farà altro che spingerci verso quel “capitalismo ottocentesco come quello dei romanzi di Jane Austen e di Balzac” tanto denunciato dallo stesso Piketty. È quindi necessario prendere l’iniziativa il prima possibile; è giunto il momento di muoverci.
[…] cambiamenti è stato l’assottigliamento della classe media, processo andato di pari passo con l’aumento delle disuguaglianze e la drastica diminuzione della mobilità sociale. La faglia tra “vincenti” e “sconfitti”, […]
[…] dominati vi sia stata una forte autogiustificazione ideologica nel tenere in piedi le ragioni della disuguaglianza. Nell’analisi di Piketty si dedicano ampie descrizioni delle antiche società trifunzionali […]
[…] decenni dopo, lo scenario è preoccupante: le disuguaglianze hanno lacerato il corpo sociale, la nostra sovranità appare a pezzi, i diritti sociali dei […]
[…] scorciatoie. E così, a sinistra l’idea di merito è assurta a una sorta di antidoto alle disuguaglianze. Si afferma che l’attuale struttura sociale tende a rigenerare le disuguaglianze, perché punta […]