Che bilancio dare della Trumpnomics? Scopriamolo nell’articolo che dà il calcio d’inizio al dossier congiunto sugli Usa di Kritica Economica e Osservatorio Globalizzazione. Buona lettura!
A poche settimane dalle elezioni presidenziali statunitensi il tema dell’economia si fa sempre più strada come decisivo per la contesa che vedrà opporsi, il prossimo 3 novembre, Donald Trump e Joe Biden.
La pandemia ha in un certo senso rotto le uova nel paniere al presidente in carica, che in inverno sembra doversi avviare verso una riconferma ritenuta altamente probabile a causa del clima favorevole che nel Paese si era, a livello generale, creato sul fronte dell’economia e del business. Chiaramente, negli anni della Trumpnomics prima della pandemia, non si era verificato alcuno scossone rivoluzionario, in un senso o nell’altro, per il sistema statunitense.
Tuttavia, la crescita sostenuta del Pil, degli indici borsistici e dell’occupazione ha coperto sistematicamente e a lungo il fatto che sotto la superficie negli Usa si mantenessero, ben consolidate, le problematiche degli ultimi decenni. Dall’esclusione sociale alle disuguaglianze, passando per l’asimmetria tra le coste e i flyover States e la sperequata distribuzione della ricchezza, tali problematiche sono state portate in superficie dalla pandemia e dalle proteste seguite all’uccisione di George Floyd, e hanno gettato implicitamente un’ombra sull’operato consolidato dell’era Trump.
I dati sulla Trumpnomics
Ma che bilancio possiamo dare della presidenza nel triennio passato dall’insediamento del 20 gennaio 2017 all’inizio della pandemia? E quale della risposta al contagio economico emerso in parallelo a una pandemia affrontata da Washington in maniera a dir poco controversa? Partiamo, per analizzare questi scenari, dai dati più significativi. A inizio mandato, Trump aveva abbassato dal 4% della campagna elettorale al 3% l’obiettivo di crescita media che puntava a far conseguire agli Usa. Il Pil statunitense, tra il 2017 e il 2019, ha registrato una crescita media di oltre il 2,5% trainato principalmente dal decollo delle borse e dalla riforma fiscale promossa nel 2017 dal Congresso a controllo repubblicano.
La riforma fiscale made in Trump ha prodotto un crollo dell’aliquota marginale sugli utili d’impresa dal 35 al 21% (in linea con il 20% promesso da Trump in campagna elettorale) e abbassato dal 39,6% al 37% dell’aliquota massimale sulle persone fisiche, pur mantenendo invariata al 10%, l'aliquota per chi guadagna fino 9.525 dollari come singolo, e 19.050 per le coppie.
La crescita del Pil non è stata dunque equamente spalmata sulla popolazione; inoltre nel primo trimestre del 2019, registra Bloomberg, gli investimenti sono cresciuti al ritmo annuale del 2,7 per cento, cioè a metà della media degli ultimi dieci anni. L’incrocio tra taglio fiscale e quantitative easing globale ha di fatto portato le imprese a sfruttare i capitali liberati dalla riforma fiscale per compiere spericolate operazioni finanziarie, dai buyback di azioni proprie a manovre di fusione e acquisizione.
Non a caso Trump si è più volte focalizzato sui record continuamente demoliti dagli indici di Wall Street: le 500 maggiori aziende quotate in Borsa hanno generato, tra il 2017 e il 2019, utili azionari per 17 mila miliardi, secondo quanto sottolineato dai dati del Bespoke Investment Group, che misura dal 1928 l'andamento dei 500 titoli più importanti, in base ai quali si nota anche come l’indice S&P500 abbia guadagnato, solo nel 2019, oltre il 28 per cento, ben sopra la media del 12,8 per cento registrato nel terzo anno di mandato dei tre precedenti presidenti degli Stati Uniti.
Non a caso anche in piena pandemia l’organo per eccellenza degli investitori Usa, il Wall Street Journal, ha appoggiato esplicitamente l’effetto Trump sulle borse: “I risultati economici dei primi tre anni di Trump sono molti di più di quanti i suoi detrattori siano disposti ad ammettere”, ha notato la testata newyorkese, “e questo è fondamentale per capire quanto bene l’economia si riprenderà dopo il Covid-19″.
Il quotidiano di proprietà di Rupert Murdoch ha in particolare fatto presente come tra il 2017 e il 2019 anche l’occupazione negli Stati Uniti abbia conosciuto un trend positivo. Bisogna sottolineare come in questo contesto Trump abbia cavalcato un trend positivo iniziato già nel triennio conclusivo dell’era Obama. A gennaio 2020, con oltre 200mila posti di lavoro creati, l’amministrazione Trump si posizionava attorno a un guadagno in termini di posti di lavoro di 7 milioni di unità, superiore al primo triennio obamiano ma inferiore alla fase finale del governo del primo presidente afroamericano della storia. Dal gennaio 2017 in avanti la disoccupazione è scesa dal 4,7% del gennaio 2017, periodo che aveva fatto segnare il 76esimo mese consecutivo di crescita degli addetti, al record storico in mezzo secolo del 3,6%, prima dello tsunami coronavirus.
È bene sottolineare come meno di 10mila posti di lavoro in media al mese siano venuti dal cavallo di battaglia economico di Trump in campagna elettorale, la battaglia per la reindustrializzazione degli Usa e il rilancio della produzione negli Stati della Rust Belt. L’economia nell’era della Trumpnomics è stata trainata dai settori tradizionali: produzioni ad altra intensità di capitale, finanza, servizi alle imprese e via dicendo. La guerra commerciale con la Cina di Xi Jinping ha ridotto la possibilità di un reshoring ordinato, mentre un obiettivo non centrato dell’amministrazione è stata la riduzione del deficit commerciale: quest’ultimo è cresciuto del 10,9% sia nel 2017 che nel 2018, passando da 518,81 a 638,21 miliardi di dollari.
Nessun “effetto Trump” si è verificato anche sul fronte dei salari: nel quinquennio 2014-2019 sia l’inflazione che gli stipendi sono cresciuti attorno all’8%, con un guadagno netto di questi ultimi dello 0,9%. Questo ha profondamente accentuato la corsa alla polarizzazione della ricchezza nel contesto statunitense. Come ha sottolineato l’analista Giacomo Gabellini, “nel 2018, per la prima volta nella storia, la fascia più elitaria della società statunitense, quella che raggruppa l’élite dei multi-miliardari composta da poco più di 400 famiglie, ha pagato un’aliquota fiscale effettiva – calcolata sommando le tasse federali a quelle statali e a quelle locali – pari al 23%, a fronte del 24,2% versato dalla categoria dei lavoratori semplici. Più di un punto percentuale di differenza”.
Tale dato è stato sottolineato in particolare dagli economisti Gabriel Zucman e Emmanuel Saez dell’Università di Berkeley nel recente volume The triumph of injustice. Nel novembre 2019, inoltre, i 400 uomini più ricchi d’America, messi insieme, hanno sfondato la soglia dei 3mila miliardi di dollari complessivi di patrimonio, mentre nel pieno della pandemia Apple è divenuta la prima compagnia a capitalizzare oltre 2mila miliardi a Wall Street.
La risposta alla pandemia
La pandemia di Covid-19 ha profondamente cambiato le carte in tavola: Trump, che come ha scritto lo storico Mario Del Pero si trovava alla guida di un’amministrazione che non ha imposto strappi radicali sull’economia e tutto sommato veleggiava in un mare non agitato, ha dovuto affrontare la crisi sanitaria ed economica senza un preavviso adeguato e senza che la sua amministrazione fosse in grado di capire in tempi rapidi la minaccia posta in essere dal Sars-Cov-2.
La serrata delle attività produttive, il blocco dei commerci, il tracollo di un mercato del lavoro fondato su un diritto flessibile e su scarse tutele agli occupati, i problemi del sistema sanitario e la sperequazione tra finanza ed economia reale hanno prodotto danni devastanti negli Usa, che a settembre hanno sfondato quota 200mila morti per la pandemia. In poche settimane 40 milioni di persone hanno fatto richiesta di sussidi di disoccupazione, e il numero dei jobless è sicuramente ancora più elevato; nel secondo trimestre lo schianto del Pil ha superato il 30% su base annua, mentre la magmatica sovrapposizione tra disuguaglianze sociali e crisi economica ha dato fuoco alle polveri al caso Floyd, che sarebbe riduttivo rubricare a semplice reazione al razzismo.
Dopo un confronto serrato al Congresso, democratici e repubblicani hanno concordato con la Casa Bianca una risposta a tutto campo. Il giornalista e esperto di politica statunitense Stefano Graziosi ha descritto l’ampiezza della risposta con precisione in un articolo scritto per l’Osservatorio Globalizzazione:
“Dopo aver approvato un primo stanziamento da 8,3 miliardi di dollari, Trump ne ha sbloccati ulteriori 50, grazie alla proclamazione dell’emergenza nazionale con lo Stafford Act. Il presidente ha anche siglato un pacchetto bipartisan di aiuti dal valore complessivo di oltre 100 miliardi, che – tra le altre cose – prevede tamponi gratuiti, sussidi di disoccupazione e potenziamento del programma sanitario Medicaid.
Lo stesso maxi-piano da 2.000 miliardi di dollari, anch’esso approvato a larghissima maggioranza dal Congresso, è stato fortemente auspicato dalla stessa Casa Bianca: si tratta dello stimolo economico più corposo che la storia americana ricordi. Una cifra di molto superiore ai 700 miliardi di dollari, stanziati da George W. Bush per salvare le banche dalla crisi finanziaria nel 2008, e agli oltre 800 miliardi di Barack Obama, per contrastare la Grande Recessione nel 2009. In tutto questo, non dobbiamo neppure trascurare che Trump, per potenziare la produzione di materiale sanitario, stia facendo ampio ricorso a una legge bellica, come il Defense Production Act del 1950”.
Lo stimulus package ha contenuto misure di stampo anticiclico e keynesiano per fornire liquidità alle imprese, evitare il fallimento di settori come l’aeronautica civile e l’energia, varare politiche di helicopter money per rinforzare i redditi delle famiglie più povere. La sua dotazione è andata di pari passo con l’aumento della massa di liquidità emessa dalla Federal Reserve e ha assunto una connotazione di matrice prettamente emergenziale.
Ma la pandemia ha mostrato contraddizioni e debolezze del sistema a stelle e strisce. I dolori di una giovane superpotenza, che con le faglie economiche e sociali dovrà convivere a lungo: e il punto fondamentale è che né Donald Trump né Joe Biden, pur risultando profondamente interessati al rilancio dell’economia a stelle e strisce, sembrano destinati a incorporare nelle loro agende governative serie e profonde risposte a problemi che molto spesso dati e statistiche non catturano. Dall’assistenza sanitaria all’esclusione sociale in terreno urbano, c’è un malessere che cova e che un voto tanto polarizzante rischia solo di esacerbare.
1 - continua
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"Americana", il dossier congiunto di Kritica Economica e Osservatorio Globalizzazione, è realizzato col patrocinio dell'associazione culturale "Krisis".
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L’arco di tempo concesso dalla presidenza è troppo breve per poter esprimere giudizi definitivi. La virulenza dello scontro politico interno e le reazioni e le contromosse esterne hanno rallentato l’attuazione di scelte economiche, soprattutto geoeconomiche, alle quali serve parecchio tempo per manifestare tendenze e risultati. Basti pensare al recente accordo tra Canada, Messico e Stati Uniti e al tempo necessario per le rilocalizzazioni. In caso di riconferma di Trump se ne potrà riparlare con qualche certezza in più tra quattro anni