Agli ormai infiniti appelli in favore del MES si è aggiunto anche quello di Maurizio Landini (segretario della CGIL), che, in una recente intervista per La Stampa, ha definito l’utilizzo delle linee di credito del Meccanismo Europeo di Stabilità un’occasione “irripetibile”. Questa presa di posizione da parte della CGIL si aggiunge a quella di tante forze sociali e disegna uno scenario dominato da un consenso acritico nei confronti delle misure proposte da Bruxelles. Insomma, CGIL e Confindustria stanno dalla stessa parte (e non è la prima volta che accade).
C’è da dire che l’elezione di Landini aveva fatto rinascere la speranza tra tanti lavoratori e disoccupati che da tempo avevano perso la fiducia nella rappresentanza e in lui vedevano la possibilità di un riscatto. Tuttavia, Landini si è presto rivelato come la versione più carismatica della Camusso, tradendo tutte le aspettative che si erano costruite attorno alla sua figura. A smascherare le iniziali apparenze sono state alcune uscite dello stesso segretario (talvolta eccessivamente ingenue). Tra queste non possiamo dimenticare la famosa alleanza tra lavoratori, governo ed imprese per impedire lo “sbriciolamento” del Paese oppure l’appello al voto per le elezioni europee. Come se questo non bastasse, a distanza di poco tempo, Landini propone il suo ennesimo appello, questa volta in favore del MES e attraverso le sue dichiarazioni fa emergere l’enorme abisso che separa lavoratori e sindacato.
La lotta dei lavoratori è caratterizzata da una storia lunghissima che nasce dalle macerie di un conflitto: quello tra capitale e lavoro. Compito del sindacato dovrebbe essere quello di dar forza ai lavoratori all’interno di una battaglia condotta ad armi impari, senza cadere nell’oblio di un riformismo funzionale agli interessi del capitale. Tuttavia, la CGIL sembra muoversi nella direzione esattamente opposta e le dichiarazioni del suo segretario non fanno altro che confermare quest’ipotesi.
L’europeismo di Landini si presenta come un atto di devozione fideistica nei confronti di un’istituzione la cui architettura è stata pensata appositamente per affermare la predominanza del capitale sul lavoro. Chi rappresenta i lavoratori dovrebbe combattere questa struttura piuttosto che promuoverne gli strumenti. A tal proposito, Landini dovrebbe sapere che il MES non rappresenta un’occasione per l’Italia e soprattutto per i lavoratori perché l’assenza delle condizionalità è uno specchietto per le allodole. Il MES, infatti, vincolerebbe l’Italia nei confronti di un’istituzione di diritto internazionale che avrebbe il potere di condizionarne la politica economica e questo dovrebbe bastare a Landini per mostrare un pizzico di prudenza in più quando parla del Meccanismo Europeo di Stabilità (dato che l’austerità la pagano sempre i poveri cristi).
Ma la questione del MES, alla fine, risulta marginale se si pensa alle enormi contraddizioni che caratterizzano l’Europa. Queste contraddizioni dovrebbero spingere la CGIL verso una riflessione chiara e critica nei confronti dell’architettura europea, perché non si può essere per l’Unione europea e per i lavoratori. Delle due l’una, altrimenti la CGIL ci dovrebbe spiegare come intende tutelare il diritto al lavoro all’interno di un’organizzazione che stabilisce un tasso di disoccupazione non inflazionistico (NAIRU) per ciascuno Stato membro, oppure come intende conciliare la libera circolazione dei capitali (che l’UE promuove) con gli interessi dei lavoratori.
Si tratta di aspetti che, a quanto pare, sfuggono a chi dovrebbe tutelare le istanze dei più deboli. La CGIL, accecata dal suo europeismo, ha completamente rimosso dal proprio vocabolario la parola “classe”. Oggi il sindacato continua a parlare di sfruttamento (con estrema timidezza) ma non parla di classe. Eppure, le due cose sono strettamente collegate: lo sfruttamento capitalistico è uno sfruttamento di classe! Dal momento in cui il sindacato ha smesso di considerare questi aspetti, potrebbe essere tanto utile quanto necessario ripartire da una sana ortodossia.
Quando Marx parlava di sfruttamento si riferiva ad una condizione, insita nei rapporti di produzione, che determina la completa sottomissione di una classe sociale nei confronti di un’altra. In altre parole, per Marx, la concentrazione della ricchezza nelle mani dei capitalisti (i quali posseggono denaro e mezzi di produzione) priva i lavoratori di un’alternativa e li costringe a mettersi a disposizione del processo produttivo per garantirsi la sopravvivenza. In cambio della forza lavoro prestata, i lavoratori ricevono un’equivalente in denaro che dovrebbe assicurargli la sussistenza, mentre i capitalisti si impossessano del bene o del servizio prodotto.
Tuttavia, il livello di sussistenza (da cui si determina il salario) tende ad essere basso perchè è il frutto di una disputa tra capitalista e lavoratore, da cui quest’ultimo non può che uscire sconfitto (oggi la sussistenza corrisponde più alla sopravvivenza biologica). Dal momento che il lavoratore produce una merce (o un servizio), in cambio della quale riceve un ammontare di valore più basso rispetto a quello prodotto, Marx definì questa condizione come una condizione di sfruttamento dalla quale si genera “un di più” (plusvalore nel linguaggio di Marx) che passa nelle mani del capitalista e sul quale il lavoratore non ha alcuna voce in capitolo.
Marx definì la categoria di lavoratori di cui sopra “lavoratori produttivi” (cioè coloro i quali producono la merce o il servizio oggetto di vendita) dalla quale distinse la categoria dei “lavoratori improduttivi”, a cui appartengono tutti quei lavoratori che si muovono attorno al processo produttivo e garantiscono la conservazione dello status quo (sarebbero i manager di oggi, gli ingegneri, gli addetti al controllo, gli addetti alla gestione del personale ecc…).
Attraverso questa distinzione, Marx voleva sottolineare le differenze che esistono tra gli stessi lavoratori, da cui può nascere un conflitto tutto orizzontale che coinvolge lavoratori improduttivi e produttivi (a volte i lavoratori improduttivi sono gli stessi che controllano e impartiscono ordini ai lavoratori produttivi e questo può generare un conflitto). Tuttavia, come sottolineato anche da Richard Wolff (docente di economia marxiana), Marx non escludeva affatto un’alleanza tra le diverse categorie di lavoratori allo scopo di condurre la lotta al capitalismo.
Sulla base di queste considerazioni, è importante precisare che all’interno della categoria dei lavoratori produttivi non rientrano soltanto gli operai, ma tutti quelli che producono una merce o un servizio oggetto di vendita. All’interno di questa categoria Marx considerava, per esempio, i contadini oppure gli artigiani. Ritornando al presente, è possibile dire che molte partite IVA o comunque molti titolari di impresa (come dice lo stesso Wolff) potrebbero essere considerati gli artigiani di ieri, in altre parole: essi sono lavoratori produttivi se si alzano la mattina per alzare la saracinesca e partecipare (assieme ai dipendenti) alla produzione.
Nella frenesia dei nostri giorni questi aspetti basilari sono stati persi di vista e lo stesso sindacato ha smesso di considerarli. Oggi, per esempio, si tende a distinguere i lavoratori in base al reddito (ricchi o poveri), alla nazionalità, al colore della pelle (bianchi o neri) o al genere (maschi o femmine). Si tratta di distinzioni certamente importanti ma che esulano da un’analisi di classe (secondo la quale bisognerebbe guardare ai rapporti di produzione).
Dunque, questa era l’analisi di Marx in un’epoca in cui la ricchezza si concentrava maggiormente nell’economia industriale. Oggi la realtà è certamente più complessa, ne consegue che la struttura di classe della società contemporanea risulta molto più articolata. Tuttavia, se Gaber aveva ragione nel dire di non vedere i padroni, diventati ormai “impersonali” (come affermava in un suo celebre monologo), è altresì vero che i lavoratori (produttivi e non) sono rimasti sempre allo stesso posto lasciando inalterati gli equilibri che caratterizzano la struttura industriale.
Dunque, se la presenza dei lavoratori continua ad essere percepita dalla società, occorre chiedersi dove sono finiti i loro padroni. Per rispondere a questo interrogativo possiamo riprendere nuovamente l’analisi di Richard Wolff, il quale sottolinea che i capitalisti industriali di oggi sono gli stessi di ieri. Cioè sono tutte quelle persone che fanno parte dei consigli di amministrazione delle società la cui gestione è nelle mani di un singolo individuo (l’amministratore delegato). Si tratta di persone che non lavorano, non partecipano alla produzione, ma si impossessano di ciò che i lavoratori producono.
Dunque, nonostante la prevalenza di ciò che Hilfreding definiva il “capitale fittizio”, cioè il capitale finanziario (che risulta più difficile da inquadrare), certi equilibri sono rimasti immutati e quando Landini propone l’alleanza tra lavoratori, governo ed imprese, finisce (proprio come disse Gaber nello stesso monologo) che uno si trova davvero senza borghesia, senza classi, senza padroni ed è nella merda più di prima.
Dunque, se lo stesso Marx auspicava delle alleanze tra lavoratori allo scopo di condurre la lotta al capitalismo, quale dovrebbe essere un punto di partenza strategico da cui sviluppare un’analisi capace di guidare la società verso la democratizzazione dell’economia? Per fare chiarezza sarebbe meglio tenere lontane categorie sfuggenti che si concretizzano in espressioni come “piccolo imprenditore”, “piccolo commerciante” o “classe media”. D’altronde cos’è oggi la classe media se non una categoria funzionale al capitale che tende all’omologazione delle masse sulla base di un benessere apparente?
La generazione presente è una generazione ipnotizzata, immersa in un ambiente pieno di oggetti tecnologici e merci di ogni tipo che trasmettono quel senso di benessere diffuso (tutti posseggono un qualcosa che ieri non esisteva), ma è un benessere consumistico privo di concretezza (dunque apparente) dietro al quale si nasconde un’avvilente condizione di precarietà. Si tratta di un benessere da indebitamento che si materializza nell’acquisto rateizzato di un cellulare, è un benessere figlio del sacrificio che costringe alla privazione per raggiungere il conseguimento e che si materializza ogniqualvolta si è costretti a scegliere tra la cena fuori o il biglietto per un concerto. Insomma, è il benessere capitalistico che tutti inganna e tutti accarezza. Per questa ragione categorie come quelle di sopra non ci comunicano più niente.
Tenuto conto di questa premessa sarebbe utile piuttosto tracciare il confine tra reddito e profitto. Due variabili apparentemente simili ma profondamente diverse. Il profitto è espressione di ciò che Marx definiva “plusvalore”, ossia è un “di più” di cui qualcuno che non lavora si impossessa (il capitalista). Il reddito invece, è lo specchio della sussistenza e riguarda tutto ciò che risulta necessario alla conduzione di una vita degna di essere vissuta. Dunque, chi lavora per il reddito vuole potersi permettere una casa confortevole, una vacanza, un posto in cui poter trascorre il fine settimana… Insomma tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno per essere sereno. Al contrario, il profitto è una variabile che va oltre il reddito e, come detto, rappresenta un “di più” di cui qualcuno che non lavora si impossessa a scapito di tutta la popolazione.
Chiarito il confine tra reddito e profitto e messe da parte le categorie sfuggenti, nell’epoca del liberismo imperante l’unica alleanza strategicamente auspicabile sarebbe proprio quella tra percettori di reddito, ovvero tra tutti i lavoratori produttivi e improduttivi che non occupano posizioni di rilievo o di comando (i manager non marcerebbero con gli operai neanche per andare al paradiso, lungi dal voler escludere eccezioni), senza però mai dimenticare l’eterogeneità di queste categorie che si concretizza in quel conflitto tutto orizzontale di cui abbiamo parlato.
Dunque, non si tratta di abbandonare le differenze che caratterizzano la classe dei lavoratori ma si tratta di sviluppare un criterio prioritaristico capace di guidare l’economia verso una graduale democratizzazione della sua struttura. In tal senso occorre focalizzare l’attenzione su quel conflitto verticale (tra capitalisti e lavoratori) che oggi ha determinato una sottoproletarizzazione delle masse, da cui si può uscire soltanto unendo chi sta ai piani bassi della scala sociale.
Ne viene fuori una realtà immensa, fatta di gente che si alza la mattina per andare in fabbrica, in ufficio, al negozio o a scuola, di ragazzi e ragazze che si mettono in sella su una bici a smistare consegne o che passano di porta in porta nella speranza di piazzare una vendita, oppure di persone che si svegliano per alzare la saracinesca della loro attività. Si tratta di gente diversa ma che lavora e spesso non ha un’entrata sufficiente a coprire le proprie spese. Sono persone che non hanno accesso a quel “di più” e dovrebbero unirsi allo scopo di rivendicare il diritto per tutti i lavoratori di poter vivere una vita degna di essere vissuta e il potere di decidere sulla gestione di una ricchezza immensa prodotta da molti e consumata da pochi.
Ogni anno la società crea un plusvalore enorme con cui si potrebbero costruire ospedali e scuole, si potrebbe garantire l’assistenza a chi ne ha bisogno, oppure si potrebbe distribuire il lavoro tra tutti così ognuno lavorerebbe meno e avrebbe più tempo libero a disposizione (visto che oggi lavorano in pochi e troppo). Ma per fare questo è necessario che la società abbia il potere di decidere come impiegare questa ricchezza che si concentra nelle mani di pochi. Dunque, nell’epoca in cui si parla tanto di distribuzione della ricchezza sarebbe importante parlare della distribuzione del potere.
Insomma, il sindacato recuperi uno slogan tanto caro ai lavoratori: potere a chi lavora.