È stata ampiamente diffusa la notizia sulla perdita di quasi un milione di posti di lavoro dall’inizio della pandemia, nonché dell’aumento dei cosiddetti inattivi (+717mila).
Quando si analizza un dato del genere è difficile assumere una posizione netta circa la portata del fenomeno: sì, certo, un milione pare un numero particolarmente considerevole, ma sono davvero così tanti? È evidente la necessità di relativizzare, di ponderare il dato, di individuare un elemento di confronto che consenta di attribuirgli la giusta “dimensione”.
Si consideri poi un aspetto ulteriore, una triste e facile profezia: il dato tenderà ad aumentare, a peggiorare. Questo perché la pandemia è ancora in corso, le misure di sostegno al reddito e all’economia in generale sono notoriamente insufficienti e, soprattutto, perché a breve verrà meno il famoso blocco dei licenziamenti.
È curioso che proprio in questi giorni ricorra un anniversario importante per la politica del nostro Paese: sono trascorsi infatti vent’anni esatti dalla firma di un contratto che ha fatto un po’ la storia della comunicazione politica italiana, quello siglato da Berlusconi negli studi di Porta a Porta nel maggio del 2001.
Berlusconi è noto per le sue sparate e in quegli anni era decisamente in forma: chi potrebbe mai dimenticare che proprio in quel contratto promise l’ormai celeberrimo poliziotto di quartiere? Anche questo rende bene l’immagine di quanto fosse “ambizioso” quel programma. E, sempre in quel testo, gran finale, prometteva il dimezzamento del tasso di disoccupazione e la creazione proprio di un milione e mezzo di posti di lavoro.
Ebbene, sono convinto che questo dia davvero la misura di quanto profondo sia il baratro nel quale il mondo del lavoro italiano sta sprofondando. Era marzo 2020 quando il Ministro del lavoro Catalfo prometteva che nessuno sarebbe rimasto indietro. Era maggio 2020, quando gli faceva eco il Ministro dell’economia Gualtieri: “Capisco la rabbia, ma non lasceremo indietro nessuno”. Rileggere oggi quelle dichiarazioni suona davvero come una beffa.
Si diceva che è cresciuto il numero degli inattivi, e questo dato è doppiamente significativo.
Gli inattivi sono coloro i quali, pur privi di un posto di lavoro, decidono di interromperne la ricerca: il loro aumento è dunque indicativo della diffidenza, della disperazione, della rassegnazione che sempre più si fanno spazio nell’animo delle persone. Aumenta cioè il numero di coloro i quali rinunciano a lottare per la propria sopravvivenza e decidono in molti casi di lasciarsi andare alla miseria, alla fame, all’inedia.
Il loro numero poi incide sul tasso di disoccupazione distorcendolo: infatti il paradosso è che il tasso scende all’aumentare degli inattivi. Il tasso di disoccupazione, infatti, indica il rapporto tra chi cerca lavoro e forza lavoro. Aumentando il numero degli inattivi, diminuisce il tasso di disoccupazione e rischia conseguentemente di risultare molto meno attendibile e quindi distante dalla drammaticità della situazione che invece dovrebbe verosimilmente fotografare: occhio a come verrà presentato nei prossimi mesi dalla stampa.
È un disastro senza precedenti e la politica, come il sindacato, si dimostra assolutamente inadeguata a comprenderne la portata, come pure a individuare le misure per contenerne gli effetti. Servono delle risposte, subito, immediatamente: il mondo del lavoro, pubblico e privato, dipendente e autonomo, è in gravissimo pericolo e con esso il Paese intero.