Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, la divergenza tra mercati finanziari ed economia reale è in crescita ed è trainata dalle politiche monetarie non convenzionali.
Con lo scoppio della pandemia di Covid-19, verso la fine di febbraio i mercati finanziari hanno reagito con la caduta delle valutazioni azionarie e l’aumento degli spread creditizi. Da metà marzo, però, il trend si è invertito nonostante una fragile ripresa economica, specialmente negli Stati Uniti. Nella Quarterly Review di settembre, la Banca dei Regolamenti Internazionali (o BIS, dall’acronimo inglese) si chiede cosa abbia spinto i mercati a slegarsi progressivamente dall’economia reale e stima il contributo dell’acquisto di titoli da parte delle banche centrali.
Ad inizio settembre, secondo la BIS le valutazioni azionarie risultano elevate rispetto ai profitti attesi nella maggior parte dei settori, compresi i maggiori beneficiari della pandemia, tecnologia e sanità. Ad esempio, Apple ha raggiunto i 2000 miliardi di dollari di capitalizzazione, un quarto della quale ottenuto durante l’epidemia di Covid-19. Ricordiamo che il prezzo di un’azione è determinato da domanda ed offerta nel mercato, e la volontà di un investitore di acquistare una quota di una società dovrebbe rispecchiarne la redditività futura: se un settore dell’economia presenta profitti attesi elevati, gli operatori finanziari vorranno riceverne una parte. Di conseguenza, in aggregato, l’andamento dei mercati dovrebbe essere strettamente correlato all’andamento dell’economia reale. In realtà, però, i dividendi attesi sono incerti ed altri fattori contribuiscono alle valutazioni azionarie.
In particolare, tre fattori sono identificati dalla BIS come rilevanti nel periodo dell’epidemia. Per prima cosa, le prospettive di crescita dell’economia si sono rivelate meno negative delle previsioni iniziali, anche se rimangono fragili. Secondo, sono stati annunciati nuovi interventi fiscali come il Next Generation EU, noto come Recovery Fund. Infine, le maggiori banche centrali hanno reagito allo stop dell’economia con l’acquisto di titoli, noto come Quantitative Easing. In particolare, la Fed ha acquistato più di 2000 miliardi di dollari di titoli tra marzo ed aprile, cifra che corrisponde circa al PIL italiano nel 2019. Nell’Eurozona, la BCE ha allargato il suo programma di acquisti con la denominazione Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), la cui portata totale è di 1350 miliardi di euro. Gli attivi delle due banche centrali hanno così raggiunto rispettivamente il 30% ed il 50% del PIL.
Ricordiamo che con il Quantitative Easing una banca centrale aumenta la domanda di titoli di debito, principalmente titoli di Stato ed obbligazioni. Di conseguenza, il prezzo di mercato aumenta ed il rendimento diminuisce (si prenda come esempio un titolo emesso a 98 che restituirà 100 tra un anno; se viene comprato oggi al prezzo di mercato 99, esso renderà al compratore 1 anziché 2). La caduta dei rendimenti fa sì che Stati e (alcune) imprese si possano finanziare a tassi favorevoli data l’alta domanda per il loro debito creata dalla banca centrale. Se l’effetto sui prezzi nei mercati finanziari è ben documentata dalla ricerca economica, l’impatto del Quantitative Easing su Pil ed inflazione, anche se generalmente favorevole, è invece molto incerto.
In breve, l’impatto sull’economia reale dipende da cosa Stati, banche e grandi aziende fanno con la liquidità ottenuta in cambio dei titoli di debito. Se finanziano progetti ad alto valore aggiunto, l’economia crescerà, e così le azioni a causa di un miglioramento dei fondamentali. Le valutazioni azionarie, però, posso anche salire per motivi slegati dall’economia reale. Alla ricerca di rendimenti elevati, le istituzioni finanziarie possono per esempio comprare titoli più rischiosi, scommettendo su continui rialzi. Inoltre, alcune imprese potrebbero usare il credito a basso costo per ricomprare le proprie azioni così da inflazionarne il valore, un’abitudine che le grandi corporation statunitensi non hanno modificato nonostante la caduta dei profitti con il Covid-19.
Nella Quarterly Review, la BIS stima il contributo della politica monetaria al rialzo delle azioni, al netto delle aspettative sui dividendi futuri (i dettagli sulla metodologia si possono trovare nel box B della review). In particolare, la maggiore domanda di titoli delle banche centrali durante la pandemia ha portato ad una caduta del tasso d’interesse a lungo termine di 80 punti base (0.8%) negli Stati Uniti e di 10 punti base (0.1%) nell’area euro, con effetti rilevanti sulle azioni: circa un quinto dell’aumento del mercato azionario nell’eurozona e metà negli Stati Uniti sono dovuti alle politiche monetarie non convenzionali, e non a migliori aspettative sull’andamento dell’economia. In altre parole, specialmente negli Stati Uniti, gli interventi delle banche centrali hanno contribuito a mantenere alto il valore delle azioni nonostante le difficoltà di molti settori produttivi.
Le politiche monetarie non convenzionali hanno effetti redistributivi: chi possiede attività finanziarie o emette nuovo debito sui mercati ne beneficia. La domanda è se e quando questi effetti redistributivi sono giustificati. In passato l’intervento delle banche centrali è stato fondamentale, basti pensare al famoso “whatever it takes” di Mario Draghi. Non è detto, però, che il continuo ricorso al Quantitative Easing lo sia altrettanto. In altre parole, non è chiaro se i suoi effetti sui mercati siano giustificati da una maggiore crescita economica. Se pubblico e privato non si servono delle condizioni favorevoli concesse dalle banche centrali per finanziare investimenti ad alto valore aggiunto, il rischio è che l’unica conseguenza del Quantitative Easing sia l’aumento della divergenza tra mercati ed economia reale.