La crisi ucraina non è solo una partita identitaria, figlia della storia delle relazioni tra Mosca e Kiev o di presunte, ataviche mire russe all’espansionismo. È anche una sfida geo-economica con precisi radicamenti nelle dinamiche strategiche riguardanti i territori contesi.
Nel 2014, ad esempio, per la Russia annettere la Crimea voleva dire certamente accaparrarsi una base navale cruciale nel Mar Nero, ma anche un pivot commerciale in un bacino attraversato da flussi di gas e petrolio importanti.
E anche sul fronte della crisi che ha portato Vladimir Putin a riconoscere le repubbliche secessioniste di Donetsk e Lugansk si può leggere, in prospettiva, un determinante economico: il bacino carbonifero e il polo industriale del Donbass sono la “Lombardia” d’Ucraina, pesavano prima del 2014 per oltre un quinto del Pil ucraino e ricerche della Vox Ukrainehanno sottolineato che l’Ucraina nel periodo 2014-2017 ha perso il 15% del valore del Pil pro capite nazionale per la separazione de facto della sua regione più produttiva. Non a caso tirata a lucido poco prima della guerra nel grande evento che presentò l’Ucraina al Vecchio Continente, l’Europeo di calcio del 2012.
Per Mosca, dunque, troncare di fatto l’Ucraina significa ridurla a regione dipendente da aiuti esterni per il suo sviluppo economico, depotenziarne il valore agli occhi dell’Occidente, avvicinarne l’obiettivo strategico della “finlandizzazione”, ovvero la neutralizzazione del Paese e la sua trasformazione in un definitivo cuscinetto tra Europa e Usa da un lato e Mosca dall’altro.
Della desiderabilità di un’Ucraina neutrale ha parlato anche l’ex ambasciatore italiano a Mosca Sergio Romano in un’intervista a Il Manifesto.
“L’Ucraina deve essere un paese neutrale, non può essere altro che un paese neutrale e potrebbe trovare in questa veste anche la possibilità di un ruolo politico rispettabilissimo e molto utile per l’insieme dell’Europa. Qualche volta ho l’impressione che anche persone che considererei sagge non si siano sufficientemente schierate sul fronte della neutralità”.
La Russia ha la sua grande fetta di responsabilità nel precipitare della crisi ucraina, ma il “peccato originale” è stata la decisione di spaccare il Paese nel 2014 tra filo-occidentali e filo-russi in nome di due diverse visioni del progresso e dello sviluppo economico. In questo momento non è desiderabile che Kiev entri nella Nato e nell’Unione Europea, considerato il peso dell’assistenzialismo economico che questa scelta comporterebbe: del resto, senza alcun accordo di associazione, dal 2014 ad oggi, l’Ue ha fornito circa 17 miliardi di euro all’Ucraina, sia a sostegno della sua economia claudicante che della modernizzazione del Paese, oltre agli aiuti promossi per combattere il Covid-19. L’impegno in caso di ingresso di Kiev nella comunità sarebbe ancora più profondo.
Vi è, infine, nel precipitare della crisi, un legame indiretto con la grande partita dei gasdotti con cui la Russia sta riqualificando le sue forniture agli altri Paesi. E si inserisce in una duplice partita: energetico-infrastrutturale e valutaria. Sul primo fronte, negli ultimi anni la Russia ha puntato esplicitamente a cooptare al suo fianco con l’integrazione economica e a consolidare come partner diversi Paesi stipulando importanti accordi infrastrutturali capaci di bypassare Kiev nelle forniture di gas all’Europa.
TurkStream, figlio dell’accordo Putin-Erdogan, e il “gasdotto della discordia” Nord Stream 2, immaginato con Angela Merkel, si sommano in quest’ottica al gasdotto Power of Siberia che dirotta buona parte delle forniture di gas verso la Cina. La crisi ucraina scoppia mentre il nuovo esecutivo tedesco decide se attivare o meno Nord Stream 2 e, soprattutto, mentre Cina e Russia si accordano per sostituire al dollaro l’euro come valuta di riferimento nel commercio energetico bilaterale.
L’escalation di tensioni che i diversi “partiti della guerra” tra Russia, Ucraina e Usa stanno alimentando è funzionale anche a usare la crisi ucraina per consolidare un disaccoppiamento tra Russia e Europa da cui solo i falchi di tutte le parti uscirebbero vincitori, che rischia però di lasciare all’angolo il Vecchio Continente, vero perdente geopolitico, strategico e economico di un’escalation verso la guerra che lo vedrebbe schiacciato.
Unire i diversi interessi in campo sotto l’egida di un grande progetto di mediazione europea, come tentato da Scholz e Macron nelle ultime settimane, è l’unica via per risolvere la crisi. E gli interessi economici possono essere la base di una trattativa.