Seppur tardivo e stentato, il tanto atteso risveglio delle coscienze rispetto al tema della crisi ambientale inizia a prender forma concreta a livello globale. Il lessico che ne esprime le molteplici manifestazioni comprende Green New Deal, Extinction Rebellion, FridaysForFuture e green economy, oltre a un elenco di neologismi che animano i dibattiti pubblici sulle piazze reali delle grandi conferenze internazionali e su quelle virtuali dei social network.
La lungimiranza di una parte considerevole della classe politica, che non cade nell’errore di continuare a trascurare gli sviluppi del dialogo multilaterale promosso dalle COP sull’emergenza climatica, sembra aver avuto la meglio sulla pochezza di vedute dei grandi attori economici e delle lobby, troppo spesso incapaci di guardare oltre le logiche di profitto. La comune percezione dell’urgenza ha vinto ogni sorta di indugio, ha posto fine alla stagione dei calcoli ragionieristici. Eppure, persino ora che la “debolezza delle reazioni”, come la definisce Papa Francesco[1], è stata scossa vigorosamente, restano insoluti i nodi centrali della questione ecologica, in particolare quale modello di sviluppo sostenibile adottare (ammesso che ve ne sia uno più virtuoso delle alternative sul tavolo) e come confrontarsi con la dimensione di uno stile di vita da rinnovare nel segno della sostenibilità.
Tante, forse troppe le narrazioni della crisi in atto, la cui frammentazione rende faticoso per l’opinione pubblica orientarsi nella complessità del problema e scorgere una vaga manifestazione di unità di intenti delle forze impegnate sul campo. Fra queste rientrano le variegate associazioni ecologiste, innumerevoli esponenti della comunità scientifica (basti pensare alle centinaia di esperti che collaborano alla stesura dei rapporti dell’IPCC prodotti ogni 7 anni), giuristi favorevoli a una gestione sostenibile dei beni comuni (in Italia, nome di alta caratura morale e culturale fu Stefano Rodotà), economisti di scuola eterodossa (come Joseph Stiglitz e Stefano Zamagni), rappresentanti della Chiesa cattolica (sotto l’attuale Pontificato, è stato istituito un “Dicastero per lo sviluppo umano integrale”).
Dai toni imploranti alle previsioni catastrofiche[2], dagli studi scientifici più accurati alla prospettiva allettante del recupero di un legame intimo tra uomo e Madre Terra, tutte le cartucce sembravano essersi esaurite. Poi, trascinate dall’esempio di perseveranza dell’eroina svedese Greta Thunberg, le nuove generazioni, corteo dopo corteo, sono riuscite nell’impresa di conferire all’emergenza climatica la risonanza mediatica che meritava. Che ai giovani vadano riconosciuti il coraggio e la caparbietà che erano mancati agli adulti è indubbio. Ora, però, occorre convertire le aspirazioni in buone pratiche.
Rinnovare tanto il modello di sviluppo economico dominante, fondato su una discutibile tensione alla crescita illimitata in un mondo dotato di risorse naturali limitate e su un consumismo sfrenato, quanto lo stile di vita di miliardi di individui presuppone una critica all’antropocentrismo e al capitalismo finanziario su cui si fonda la civiltà del benessere.
Se è vero che “gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile”[3], tuttavia l’uomo è chiamato a reinterpretare la sua relazione con l’ambiente circostante e con i suoi simili. Non da dominatore assoluto degli ecosistemi del “pianeta fragile”, ma da buon amministratore, da custode responsabile è tempo che inizi a operare a livello locale e globale.
Qualcuno potrebbe ricorrere alla categoria di “glocal”, per indicare come il singolo possa agire secondo principi di giustizia sociale ed ecologica senza trascurare il peso del proprio piccolo contributo nell’ottica di un progresso umano su scala globale. In tal senso, non è compito di facile attuazione rieducare la società civile alla cura del bene comune, cosa che lega il destino delle grandi comunità globali al senso di responsabilità del singolo.
Troppo spesso agli addetti ai lavori sfugge quanto sia complicato trasmettere al contadino, al pescatore o all’operaio metalmeccanico come la crisi ecologica incida sulla loro quotidianità, come dalla condotta di ciascuno di loro dipenda lo stato di salute degli ecosistemi globali[4]. Inoltre, proprio alle attività del settore primario e secondario vengono spesso imposte le norme più restrittive in termini di sfruttamento delle risorse naturali e di tutele ambientali (per non parlare della controversa plastic tax), senza che, però, l’utilità delle stesse risulti immediatamente comprensibile, per il fatto che presumibilmente i benefici non saranno visibili se non a lungo termine.
Posta l’oggettiva difficoltà di stabilire e comunicare un nesso tra individuo e comunità globali e tra breve e lungo termine, è opportuno focalizzare l’attenzione sul metodo atto a riconfigurare il paradigma di sviluppo predominante e parallelamente lo stile di vita, in particolar modo del Nord del mondo. Di conseguenza, la questione andrà scomposta in un livello macroscopico e microscopico, senza mai abbandonare un approccio integrale (di “ecologia integrale” scrive ancora Papa Francesco nella Lettera Enciclica “Laudato si’”).
Si possono e si devono ripensare, innanzitutto, i due motori vitali dell’economia globale, ovvero capitalismo e globalizzazione. E bisogna ripensarli con il valido aiuto dell’idea di limite, di giusta misura, di moderazione di sé. A tal proposito, alla folta schiera di detrattori delle politiche volte a fronteggiare la crisi ecologica si potrebbe prescrivere una delle tante letture riguardanti il tragico destino dell’isola di Pasqua.[5]
La causa prima del collasso sarebbe stata la deforestazione, cioè la dissipazione della principale risorsa naturale su cui la vita nell’isola si basava. La foresta ospitava uccelli stanziali e attirava uccelli di passo; forniva il legname alle canoe usate per la pesca in acque profonde; difendeva l’integrità del territorio coltivato a orto dalle devastazioni delle tempeste tropicali. A poco a poco, le risorse alimentari vennero a mancare e la dieta si ridusse, prima, a polli e piccoli molluschi, e, poi, a topi e sterpaglia. La penuria dei fattori primi della vita, come sempre accade, alimentò le rivalità e la guerra tra i clan. Nella generale carenza di cibo, si finì all’ultimo stadio, l’antropofagia.
(G. Zagrebelsky, “Diritti per forza”, Einaudi Editore, Torino, 2017, pp. 42-43)
Se è verosimile che un atteggiamento analogo a quello degli abitanti dell’isola, di tipo predatorio e privo di lungimiranza, viene oggi riprodotto dalle grandi multinazionali responsabili della deforestazione dell’area amazzonica (la quale produce circa il 16% dell’ossigeno proveniente dalle piante presenti sulle terre emerse[6]) e dai fornitori di energia che sfruttano una risorsa altamente inquinante come il carbone[7], allora urge un cambio di direzione.
La classica valutazione di costi e benefici delle attività umane e i meccanismi della teoria dell’impresa non sono più adeguati. Ciò significa scardinare il dogma della centralità dell’interesse di consumatore e produttore e accendere i riflettori sui diritti delle comunità più gravemente colpite dagli effetti del cambiamento climatico (si pensi ai cosiddetti “ecomigranti”) e delle future generazioni[8].
Sia ben chiaro che un esercizio di pensiero critico come quello descritto chiama in causa non soltanto le autorità politiche e gli esperti in materia economica, ma anche, e principalmente, docenti e studiosi delle discipline umanistiche, quali filosofi e sociologi, che, tenuti da tempo a debita distanza dalle arene del dibattito pubblico, andrebbero “riabilitati” e messi in condizione di poter fornire il loro valido apporto al ripensamento dei paradigmi dominanti. Non c’è attività umana, manuale o intellettuale che sia, che non sia coinvolta in questo approccio integrale alla questione.
[1] Papa Francesco, Laudato si’. Lettera Enciclica sulla cura della casa comune, Libreria Editrice Vaticana, Torino, 2015, p. 50
[2] Cfr David Wallace-Wells, “The Inhabitable Earth”, New York Magazine, 10 luglio 2017. Tratto da: https://nymag.com/intelligencer/2017/07/climate-change-earth-too-hot-for-humans.html
[3] Dichiarazione di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo, 14 giugno 1992, Principio I
[4] Cfr Pierre de Charentenay S.I., “Politica e ambiente”, in Civiltà Cattolica 2015 II 570-571, 3960 (27 giugno 2015)
[5] Cfr anche R. Bodei, “Limite”, Il Mulino, Bologna, 2016, p. 99
[6] Vanno ridimensionate le stime precedentemente diffuse da mass media e politici che attribuivano alle foreste dell’Amazzonia il 20% dell’ossigeno presente nell’atmosfera. Tuttavia, gli incendi che dilagano sulla superficie del grande “polmone verde” del pianeta rilasciano monossido di carbonio, che ha un impatto disastroso in termini di riscaldamento climatico. (“Amazon rainforest’s fires: Ten readers’ questions answered”, BBC News, 20 agosto 2019)
[7] Il carbone rappresenta il 29,2% delle risorse energetiche utilizzate nelle attività umane e la sua combustione è fra le principali cause dello scioglimento dei ghiacci dei due poli e delle nevi perenni delle aree montuose, nonché del conseguente innalzamento del livello dei mari e dell’aumento delle quantità di radiazioni solari assorbite dalla superficie terrestre. Cfr F. Giorgi, “L’uomo e la farfalla”, FrancoAngeli, 2019
[8] Rispetto al dibattito sui diritti delle generazioni future si veda G. Zagrebelsky, ibidem, pp- 115-121
[…] Inoltre, il conteggio delle emissioni per ogni Stato non tiene conto del peso delle emissioni indirette. Seppur apparentemente negli ultimi decenni le emissioni siano diminuite nel perimetro dei confini nazionali, in realtà sono state in una certa percentuale semplicemente rilocalizzate all’estero. Tra il 1990 e il 2014, le emissioni nazionali del Regno Unito sono diminuite del 27%. Tuttavia, più della metà di quella riduzione è compensata dalle emissioni importate da altri Paesi (CarbonBrief 2018). In totale, secondo un report del 2010, le emissioni di gas serra europee importate sono in media tra il 20% e il 50% in più rispetto a quelle ufficialmente conteggiate (Davis, Caldeira, 2010). Questo significa che una buona parte delle emissioni prodotte nelle potenze emergenti, Cina in particolare, sono dovute alla produzione di beni per alimentare le esigenze di consumo dei Paesi occidentali. […]
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