Per affrontare il rapporto tra democrazia e finanza è opportuno innanzitutto chiarire i termini. Infatti il concetto di “democrazia” è più delimitato rispetto a quello di “politica”, così come la “finanza” non è l’“economia” in senso lato. Se la politica riguarda in generale l’organizzazione e l’amministrazione della vita pubblica, originariamente la oikonomia per Aristotele si riferiva alla “legge” che regola i beni della sfera dell’oikos, cioè della casa, che devono essere procurati, conservati, utilizzati; egli operava una separazione funzionale tra oikonomia e crematistica, la quale è l’arricchimento autoreferenziale e nocivo – o perlomeno non giovevole – alla comunità. Solo in seguito si giunse all’“economia politica”, definita in senso mainstream come la scienza che studia l’utilizzo razionale di risorse scarse per usi alternativi in vista di soddisfare bisogni illimitati: è la “scienza delle scelte”.
La finanza è un’altra cosa: pur rientrando nell’ambito economico, essa studia solamente i processi e le scelte tecniche di finanziamento/investimento; non si occupa di beni reali che soddisfano direttamente i bisogni umani, ma di relazioni di debito-credito mediati dalla valuta, che è un metro di valore creato dall’autorità politica. Si può distinguere tra finanza personale, aziendale, pubblica, internazionale, ecc.
Per fare un’esemplificazione: se la risorsa scarsa è il tempo e intendo sprecarne meno, un ragionamento economico suggerirebbe di prendere l’autostrada a pagamento anziché le strade vicinali, se invece il mio unico obiettivo è massimizzare le mie “finanze”, potrebbero convenirmi le stradine per evitare il pedaggio; oppure, ancora più redditizio: corro a speculare sul mercato valutario! Se l’economia dice come sia possibile massimizzare un obiettivo, la finanza fornisce gli strumenti per massimizzare le risorse monetarie. Ma non tutti i sistemi economici – penso a popolazioni indigene – sono di tipo monetario; non tutte le scelte coinvolgono il denaro.
Per quanto riguarda la democrazia, essa è una delle forme di governo possibili – almeno in astratto – della vita pubblica; in senso formale è prendere decisioni a maggioranza, come si è fatto per condannare Socrate: di per sé, non è garanzia di bene, di giusto e di vero. Abraham Lincoln definì la democrazia il «governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo»; si aprono le accezioni sostanziali di questa parola, come chi (penso a Luciano Canfora e ad Arthur Rosenberg) la pensa classicamente quale “prevalenza del demos”, vale a dire della maggioranza dei cittadini: i membri svantaggiati nella distribuzione delle ricchezze, mediante la correzione democratica, possono essere ricompensati della sproporzione.
Con il filosofo Costanzo Preve, la democrazia è il processo storico e dinamico mediante il quale il popolo «che intende esercitare il potere sulla riproduzione della propria esistenza» si costituisce pedagogicamente come comunità che, organizzata, accede al potere – non semplicemente alle urne – per perseguire il bene comune, governando a tal fine con decisioni effettivamente sovrane la sfera politica e quella economica, in condizioni di eguaglianza, di assenza di sfruttamento, di libertà di opinione e di dissenso; la sua possibilità è una “scommessa” antropologica.
Si constata però che oggi viviamo in un regime sostanzialmente non democratico, perché – nonostante le parvenze elettorali che portano ad una continua conferma delle oligarchie detentrici del potere – il popolo non riesce ad esercitare decisioni genuinamente sovrane. Politologi come Colin Crouch parlano di “post-democrazia”: le istituzioni sovranazionali hanno svuotato di fatto quella sovranità che gli Stati potevano esercitare, seppur parzialmente, anche nelle decisioni economiche. Proprio per tale motivo, l’attuale assetto istituzionale globalizzato non può definirsi in alcun modo democratico; come la polis era il perimetro delle democrazie greche, quelle moderne avevano come presupposti i confini dello Stato nazionale.
Vuoto è il vociare di chi blatera di “democratizzazione della finanza”. Questa espressione può essere intesa ad esempio nel senso dell’estensione dell’accesso ai prestiti anche a soggetti che si sa già che non saranno mai in grado di ripagare il debito, dopo aver trasformato in merce scambievole ogni relazione tra debitore e creditore. Tale illusione di “democratizzazione” è stata smascherata in particolare dagli economisti bocconiani eterodossi Massimo Amato e Luca Fantacci in Fine della finanza (Donzelli, Roma 2009) che vedono come ciò conduca piuttosto ad una “finanziarizzazione della democrazia”.
Una certa – nonché limitatissima – “democrazia” nelle decisioni finanziarie può forse scorgersi in certe forme di cogestione delle aziende da parte dei lavoratori o di finanza mutualistica cooperativa, come quella delle monete complementari, in cui vi sia reale solidarietà tra debitori e creditori, fedele al “fine della finanza”: fornire ai settori economici “reali” il denaro che necessitano. Ciò non è minimamente sufficiente: una vera democratizzazione della finanza sarebbe quella dell’accesso universale alla valuta a condizioni dignitose, evitando cioè che l’arbitraggio della valuta tra capitale e lavoro crei rapporti di forza che concentrino il potere in mano a pochi.
Anche alla luce del Fiscal Compact, l’unica risposta democratica di fronte a un simile “patto” imposto alle nazioni europee – ipso facto antidemocratico, non solo perché non è frutto di una decisione sovrana dei popoli, ma pure perché limita ulteriormente qualsivoglia margine di azione sulle decisioni economiche – sarebbe una presa di coscienza della sua antidemocraticità e un netto rifiuto da parte dei cittadini europei. Un caso emblematico di come vadano le cose oggi ci è dato dal referendum greco del 2015 sul piano proposto dai creditori che in cambio esigevano misure “lacrime e sangue”: pur avendo vinto il “no” con oltre il 61% dei voti, la decisione democratica è stata ignorata, anche formalmente.
L’economista Stephanie Kelton, consigliera di Bernie Sanders, è solita affermare: "Tutto ciò che è tecnicamente possibile è finanziariamente possibile". Ciò svela a noi che se il monopolista della valuta è lo Stato – che è l’autorità che conferisce valore alla moneta nel momento in cui esige il pagamento delle tasse per mezzo di essa – tale istituzione ha capacità finanziaria sufficiente per garantire la piena occupazione; i limiti finanziari sono autoimposti, o sono pretesti ideologici per adottare misure di altro tipo. Una pianificazione economica secondo l’“approccio della finanza funzionale agli obiettivi perseguiti dalla politica” – come proponeva Abba Lerner – può forse rispondere meglio all’esigenza di una subordinazione della finanza al bene comune; in tale presa di coscienza forse ci avvicineremo ad uno scenario più democratico.
Articolo pubblicato originariamente nel numero 6 (maggio 2018) della rivista Nipoti di Maritain