“Questo liceo valorizza le sue eccellenze”, “Questo dipartimento è un’eccellenza del territorio”: è da quando andiamo a scuola che sentiamo prèsidi, sindaci e assessori parlare di eccellenza. Quando andiamo all’università sentiamo rettori e direttori, professori e ministri continuare sulla stessa frequenza. Non ultimi Tito Boeri e Roberto Perotti che negli articoli su La Repubblica del 17 marzo e del 31 marzo auspicano la fine dei finanziamenti “a pioggia” e la concentrazione delle risorse sugli atenei migliori.
La retorica dell’eccellenza, che, in ambito universitario come altrove, ha come risultato l’approccio premiale a questioni individuali e collettive, trova il suo fondamento nell’egemonia culturale liberale e nel concetto di “merito”.
Il merito è un parametro comprensibile e condivisibile nel giudizio dell’individuo rispetto all’attività che si trova a svolgere: è comprensibile e condivisibile riconoscere le particolari capacità e il particolare impegno di una persona o di una istituzione in un determinato campo.
Il problema vero nasce quanto il merito è utilizzato in termini collettivi: se lo si utilizza come metro di giudizio relativo delle possibilità del singolo di accedere o meno ad un dato ateneo, a un livello di istruzione, a un posto di lavoro, o ancora, se lo si utilizza (sotto forma di eccellenza) come possibilità di un ateneo di accedere a dei finanziamenti ha un effetto deleterio e distorsivo del suo significato. A ciò si aggiunge che troppo spesso il concetto di merito è utilizzato per mascherare o giustificare le diseguaglianze e i mancati investimenti.
Un dato significativo, tanto per cominciare, è che l’auspicio di Boeri e Perrotti è già in larga parte realtà: l’approccio premiale al finanziamento universitario è espresso nella Legge 98/2013, che ha stabilito che “la quota premiale - collegata a parametri di valutazione della qualità della Ricerca (VQR) - del Fondo di finanziamento ordinario (agli atenei statali) è determinata in misura non inferiore al 20% per l'anno 2016, con successivi incrementi annuali non inferiori al 2% e fino ad un massimo del 30% del Fondo”.
In Italia, peraltro, non c’è un problema di eccellenza. L’eccellenza, per definizione, è un’eccezione: qualcosa che riguarda poche persone, e in Italia c’è (ed è normale e positivo che ci sia). Il problema dell’Università italiana riguarda il resto del sistema: riguarda il livello della “mediocrità”. La mediocrità fa numero, rappresenta la regola. E la regola dice che in Italia c’è un numero troppo basso di laureati.
Secondo i dati dell’indagine National Student Fee and Support systems in European Higher Education 2020/2021 di Eurydice Europa l’Italia è nella metà dei paesi UE in cui le tasse universitarie sono più alte, ed uno dei paesi in cui le esenzioni contributive e il riconoscimento di mezzi di diritto allo studio universitario (borse, alloggi, ecc.) è più basso. Per questo motivo, abbiamo una delle percentuali più basse di laureati in fascia d’età 25-35 anni (il 27%) quando secondo gli obiettivi UE avremmo dovuto toccare il 40% l’anno scorso (soglia largamente superata da paesi come la Germania e Francia).
Il numero dei laureati è questione strettamente interconnessa alla qualità e alla possibilità di fare ricerca. Come ha giustamente osservato Elena Cattaneo, proprio in risposta a Boeri e Perotti, “l’Italia ha la metà di studiosi attivi su mille occupati rispetto a Francia e Germania”. Il tema, quindi, non è accentrarli, ma aumentarli. E questo è possibile solo attraverso investimenti, in ricerca ovviamente, ma anche in accesso alla formazione universitaria.
Parlare di merito e di eccellenza è fuorviante perché ignora le reali necessità del sistema universitario: il Belpaese ha bisogno di equiparare le diseguaglianze e di investire in possibilità di accesso alla formazione e alla conoscenza, eliminando le difformità e gli squilibri prima di tutto territoriali. Bisogna invertire e non assecondare e accelerare la tendenza di accentramento dei flussi di iscrizione e finanziamento verso le grandi università. Questo fenomeno è al contempo causa ed effetto dell’emigrazione giovanile dal Sud e dal Centro verso il Nord, e del conseguente impoverimento del tessuto economico e sociale di queste aree del paese.
Un'inversione di tendenza, però, non si può ottenere con la concorrenzialità ma con la perequazione. C’è bisogno di investire in sistemi e metodi di orientamento in entrata che non siano “pubblicità” usate dagli atenei per accaparrarsi il maggior numero possibile di iscritti, ma che siano reali servizi di counseling finalizzati ad una scelta più consapevole per prevenire l’abbandono degli studi.
C’è bisogno di aumentare le esenzioni contributive e i servizi di diritto allo studio per gli studenti di fascia di reddito bassa e medio-bassa, di superare i numeri chiusi e programmati nazionali e locali, di investire in collaborazione e programmazione tra atenei ed enti locali in materia di servizi, infrastrutture digitali e residenzialità.
Se si vuole cambiare volto all’Università italiana nel PNRR, queste dovrebbero essere le priorità. Prima di parlare dell’eccezione, bisogna parlare della regola: prima di parlare di eccellenze, di concentrazione delle risorse e altre amenità varie, parliamo di livelli medi, parliamo di accesso e di perequazione, parliamo di costruire un diritto allo studio effettivo e universale, parliamo di università per tutti.
*Luigi Leone Chiapparino è Presidente del Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari