La discussione politica ed economica è ormai polarizzata. Da un lato ci si ostina a difendere i dogmi neoliberisti come se nulla fosse. Dall’altro lato si prospettano palingenesi dai contorni vaghi.
Pensiamo alla questione europea. Da una parte alcuni continuano a credere ciecamente in un sogno che si è rivelato essere un incubo a tinte fosche. Dall’altra, con eccessivo semplicismo, molti si fanno fautori di uno smantellamento delle istituzioni europee e di un ritorno a un passato idealizzato.
Ma non c’è nessun passato a cui tornare. E neppure ci possiamo tenere il presente in cui viviamo. Che fare, dunque?
Dobbiamo coltivare un’utopia del possibile. La pensabilità è presupposto necessario della fattibilità di ogni progetto. Bisogna tenere i piedi per terra, pensando che il compito principale del governo e dei politici è “garantire il benessere della comunità sotto la loro custodia nel presente, e non correre troppi rischi per il futuro”, come diceva Keynes.
“Il lungo periodo è una guida fuorviante agli affari correnti. Nel lungo periodo siamo tutti morti”, affermava sempre il barone britannico. Che aggiungeva: “Gli economisti si danno un compito troppo facile, troppo inutile, se in tempi tempestosi possono dirci solo che, quando la tempesta sarà finalmente passata, l’oceano sarà di nuovo piatto”.
La storia si compie qui e ora, attraverso le nostre scelte. Con i tempi che corrono, rischiamo di essere tutti morti non solo nel lungo periodo, ma anche nel breve, se non agiamo subito con decisione.
Dobbiamo immaginare nuove vie d’uscita dai problemi, pensare fuori dagli schemi precostituiti. Non dobbiamo abbandonarci al pessimismo. Già nel 1930, in Conseguenze economiche per i nostri nipoti, Keynes avvertiva:
“Entrambi i contrapposti errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il pessimismo dei reazionari, i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti”.
Non dobbiamo essere pessimisti, ma disillusi e allo stesso tempo creativi. Riformisti, ma non moderati. Il vero rivoluzionario è il riformista, perché sa essere pragmatico ma al tempo stesso sa coltivare l’ideale di un mondo diverso. Sa di agire nella storia. E quindi sa sfuggire alla dialettica tra posizioni ideologiche contrapposte.
Certo, il significato della parola “riformismo” è stato distorto negli ultimi anni da movimenti politici intrisi del neoliberismo più ideologico. Cerchiamo quindi di fare pulizia.
La natura del vero riformista è descritta da Federico Caffè nel suo famoso articolo pubblicato sul Manifesto il 29 gennaio del 1982, intitolato per l’appunto “La solitudine del riformista”. Il riformista è solo e stretto fra due fuochi.
Da una parte, gli antisistema lo deridono, contrapponendo alle sue proposte “future palingenesi”, “vaghe, dai contorni indefiniti”, che “si riassumono, generalmente, in una formula che non si sa bene cosa voglia dire, ma che ha il pregio di un magico effetto di richiamo”.
Dall’altra parte, lo scherniscono anche i reazionari, i quali pensano “che ci sia ben poco da riformare, né ora né mai, in quanto a tutto provvede l’operare spontaneo del mercato, posto che lo si lasci agire senza inutili intralci”.
Il “retoricume neoliberista” non scalfisce più di tanto il riformista, anzi, lo sprona a lottare con ancor più tenacia. D’altro canto, egli “avverte con maggiore malinconia” gli attacchi di chi lo giudica poco radicale. Ma è abituato a rimanere incompreso e dunque non rinuncia alla sua vocazione intellettuale. Anzi, sa di essere in realtà più radicale del massimalista, perché sa “di operare nella storia”. Le sue proposte vogliono incidere nella realtà concreta, la sua azione si svolge “nell’ambito di un ‘sistema’, di cui non intende essere né l’apologeta, né il becchino; ma, nei limiti delle sue possibilità, un componente sollecito ad apportare tutti quei miglioramenti che siano concretabili nell’immediato e non desiderabili in vacuo. Egli preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione radicale del ‘sistema’”. Un sistema che non sempre riesce a sfuggire a trasformazioni alternative e radicali.
Il vero riformismo non è solo realista. È keynesiano.
Keynes scriveva che “il fatto che tutte le cose sono possibili non è una scusa per parlare stupidamente”. Al contrario, l’ampia possibilità del reale è una sfida a pensare e a immaginare ciò che è possibile e necessario.
ll keynesismo è metodo e contenuto. Metodo, perché rifiuta dogmatismi paralizzanti. Contenuto, perché propone strumenti e valori per costruire il futuro.
Il keynesiano non santifica il capitalismo, non lo ritiene l’unica scelta possibile. Ma neanche lo condanna in toto. Lo studia, rifiutando le ideologie. Ha compreso che c’è grande confusione fra i partigiani del capitalismo e quelli dell’anticapitalismo. I primi assumono spesso atteggiamenti reazionari e respingono riforme progressiste “per paura che diventino i primi passi di un allontanamento dal capitalismo” stesso. Molti fra i secondi, invece, che “non accettano il capitalismo come modo di vita, parlano come se lo rifiutassero sul terreno della sua incapacità a conseguire i suoi stessi obiettivi”, mentre dovrebbero criticarlo per il dominio della tecnica che tende a imporre sull’uomo. Per quell’alienazione che non è subita solo dagli sfruttati, ma dall’uomo moderno in senso lato.
Il keynesiano ha con il capitalismo un rapporto fenomenologico e di ascolto. Un rapporto che non si traduce in sudditanza ideologica né a una scuola né all’altra. Con grande lucidità Keynes credeva “che il capitalismo, se sapientemente diretto, [potesse] diventare il sistema più efficiente di tutti quelli oggi alle viste per il conseguimento di fine economici; ma che, intrinsecamente, e per molti versi, [fosse] estremamente criticabile” (La fine del laissez-faire). Il keynesiano è capace di pensare altrimenti, di liberarsi dalle pastoie delle inutili ideologie e dei facili entusiasmi.
E, dopo lunga riflessione, arriva a concludere che “il problema politico dell’umanità consiste nel mettere insieme tre elementi: l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale” (Liberalismo e laburismo). A nessuno dei tre punti si può rinunciare. Tutti e tre sono essenziali all’umanità.
Alle illusioni di palingenesi future il keynesiano contrappone la considerazione che “non è sufficiente che lo stato di affari che cerchiamo di promuovere debba essere migliore dello stato precedente; deve essere sufficientemente migliore da compensare i mali della transizione”.
Al deprimente conservatorismo liberista contrappone la necessità di promuovere l’occupazione attraverso un attivo coinvolgimento del governo e la considerazione che “il mondo non è governato dall’alto in modo tale da far coincidere sempre l’interesse privato con quello sociale”.
Keynes ci guida verso una rivoluzione innanzitutto personale, poi culturale, infine economica e sociale. Ci incita a “essere audaci, aperti a esperimenti nuovi, liberi di intraprendere attività, di provare tutte le possibilità della vita”. Certo, i difensori dell’ortodossia ostruiscono il cammino. Ma devono “essere trattati con un po’ di amichevole irriverenza e mandati all’aria come birilli”.
L'autore ringrazia Andrea Muratore e Zeid Al Kaffaf.
[…] parola della neolingua è riformismo. Secondo Fitoussi esistono due tipologie di riforma: quelle positive che puntano al benessere della […]
[…] La teoria delle aspettative razionali di Robert Lucas, formulata riprendendo dei concetti esposti da J. F. Muth in campo microeconomico [1], diventa un paradigma importantissimo nello sviluppo di molteplici teorie economiche successive, che avranno una grande influenza sugli assetti istituzionali moderni. L’idea di fondo è che gli individui, che si assume abbiano una specifica conoscenza in campo economico e che condividano lo stesso modello di funzionamento dell’economia, sono in grado di prevedere gli interventi di politica economica, e possono quindi anticiparne gli effetti: in questo caso le politiche pubbliche non riescono a sortire effetto nemmeno nel breve periodo, e diventerebbe dunque dannoso applicare politiche di stampo keynesiano. […]
[…] di ricostruire la fiducia dei risparmiatori verso le istituzioni dello Stato, quanto la teoria di Keynes sulla preferenza per la liquidità, in cui aspettative e fiducia divengono formalmente variabili […]
[…] keynesiana di Kicillof è evidente dai suoi programmi finalizzati a generare effetti moltiplicatori […]
[…] realtà, seppur oggi visto come un bolscevico, Keynes aveva ben intuito come il livello occupazionale sia determinato dal mercato dei beni, piuttosto che da quello del lavoro. L’avvertimento di Bonomi (dal sapore di minaccia) […]
L’idea che l’efficienza economica sia connessa al neoliberismo rimanda ad una visione microeconomica mentre ciò di qui si vuole parlare è del sistema nel suo complesso, quindi la sua efficienza macroeconomica.
L’efficenza economica non è una caratteristica del capitalismo come sistema, è una caratteristica della singola impresa, necessaria per aumentare il profitto e per vincere la competizione con gli altri capitali.
Il sistema capitalistico, neoliberista in particolare, produce effetti in termini di gestione delle risorse inefficienti: possiamo pensare alla disoccupazione ad esempio che, a buon ragione, è un tema particolarmente caro ai keynesiani.
Un sistema che si fonda sulla libertà di impresa privata, quindi sulla proprietà privata trova dei limiti oggettivi in termini di efficienza proprio perchè la produzione complessiva sociale è divisa tra tanti soggetti in competizione tra loro nei diversi settori ed anche una pianificazione infrastrutturale e territoriale, non la più difficile produzione pianificata di beni, trova dei limiti fisici e giuridici nella proprietà privata, limiti che possono essere superati solo con compromessi che dipendono a loro volta dalla capacità di imporre un paradigma che riconosca l’inefficienza del capitalismo stesso.
Se, inoltre, è vero che la competizione tra imprese genera vincitori e vinti ed è vero quindi ciò che teorizzò Marx, ossia la legge di tendenza alla centralizzazione dei capitali (che trova una prima conferma empirica riguardo alla concentrazione del capitale azionario in uno studio relativamente recente di Emiliano Brancaccio et al.), il capitalismo genera asimmetrie macroeconomiche territoriali, concentra il potere economico e quindi politico e a sua volta riproduce le condizioni per un maggiore accentramento del potere, non produce invece le condizioni per un compromesso.
In una prospettiva rivoluzionaria, di cambiamento della struttura della società con l’obiettivo di raggiungere un maggiore benessere collettivo, il cambiamento culturale, del paradigma, gioca un ruolo chiave. Tuttavia seppure immaginiamo la necessità di un periodo di transizione in cui il ruolo dell’intervento pubblico sia prioritario e che non si risolva in una spesa a deficit generica ma pianificata, questo stato di cose, a mio avviso, non può essere raggiunto se non attraverso la lotta di classe così come non credo che il keynesismo della prima metà del Novecento si sarebbe potuto imporre come paradigma alternativo se una certa borghesia e le classi lavoratrici dei Paesi sviluppati non avessere messo in luce le contraddizioni del capitalismo stesso e non avesso ricercato un’alternativa ad esso.
[…] J.M.Keynes […]
Condivido,e aggiungo a latere dell’articolo che J.M.Keynes non è stato mai amato dai Marxisti proprio perchè non era un rivoluzionario massimalista. Per costoro “Il capitalismo si abbatte, non si cambia”. Anche oggi è così,per esempio ho letto l’ottimo ultimo lavoro di Thomas Piketty (a mio avviso potreste scrivere qualcosa al riguardo, Piketty è un’ottimo Economista obliquo, sghembo, fuori dal coro, un autore interessante in una prospettiva riformistica del liberal-capitalismo) “Capitale e Ideologia”,e ho notato che è stato stroncato da molti economisti Marxisti che considerano Piketty una sorta di “finto marxista” (Piketty stesso non si definisce un marxista!), un liberal-capitalista inconsapevole.