Lo scopo di questa nota (che completa un più ampio approfondimento teorico) è quello di concentrarsi su un aspetto che ci consentirà di capire come i risultati teorici della controversia sul capitale siano rilevanti per comprendere le premesse teoriche necessarie della cosiddetta neutralità della politica monetaria.
La variabile di aggiustamento nel mercato del capitale è, negli autori marginalisti tradizionali (1), il tasso di interesse. Secondo la teoria dei fondi prestabili esisterebbe, infatti, un tasso di interesse naturale in grado di equilibrare il mercato degli investimenti, inteso come la domanda di nuovi beni di capitale, e il mercato dei risparmi. In breve, un eccesso di offerta nel mercato dei risparmi indurrebbe una diminuzione del tasso di interesse che, a sua volta, stimolerebbe l’investimento secondo l’elasticità inversa che appunto caratterizza, come abbiamo accennato, le curve di domanda dei fattori nella teoria marginalista. Il tasso di interesse è inteso come il costo del capitale e, come la curva di domanda predice, ad un minore tasso di interesse corrisponderà dunque una maggiore domanda di capitale(investimento) e viceversa.
La critica di Keynes (2) ha tentato precisamente di invalidare questo meccanismo di pieno aggiustamento del livello di investimento al livello dei risparmi. In Keynes, l’investimento è componente autonomo della domanda aggregata e il tasso di interesse non è più la variabile di aggiustamento tra investimento e risparmi. Al contrario, il tasso di interesse si determina nel mercato del denaro. Diventa qui quella variabile in grado di livellare la domanda di denaro speculativa con l’offerta di denaro disponibile nell’economia.
Tale tasso di interesse, poi, secondo la efficienza marginale del capitale induce un dato livello di investimento, che sarà maggiore (minore) se il tasso di interesse è minore (maggiore). Non c’è più nessun meccanismo a garantire che tale livello di investimento sarà precisamente quello in grado di generare una produzione e una domanda aggregata corrispondenti al livello di piena occupazione. La posizione di equilibrio è solo una delle possibili posizioni di equilibrio di un sistema economico. Equilibrio inteso appunto come centro gravitazionale e non, come abbiamo sottolineato altrove, come posizione di market-clearing generale.
Come Garegnani (3) ha sottolineato, l’errore di Keynes è, tuttavia, nel non aver rifiutato la relazione inversa propria della teoria marginalista tra variazioni del tasso di interesse e variazioni nel livello di investimento (o, per il fattore lavoro, tra domanda di lavoro e salario reale (4)). Relazione la cui giustificazione teorica, ricordiamo, consiste unicamente nel poter esprimere in termini di valore la dotazione del fattore capitale e poter derivare, così, curve di domanda di fattori decrescenti e sufficientemente elastiche. Questa rottura incompleta con la teoria marginalista ha concesso con relativa facilità quel processo di re-integrazione del pensiero di Keynes che oggi si definisce come la sintesi neoclassica.
Introduciamo qui come esempio quella fornita da Patinkin (5) con il suo real balance effect (effetto di reddito). Prendiamo questa in esame in quanto, come vedremo, essa mostra come la politica monetaria possa essere considerata, a breve termine, un sostituto dell’effetto di reddito in situazioni di crisi e depressione economica. Essa, infatti, agevolerebbe il processo di aggiustamento e consentirebbe in modo più rapido di ristabilire la posizione ottimale di equilibrio. Se è vero, come sostiene la teoria, che l’effetto di reddito tenderebbe a stabilire spontaneamente tale posizione, è altrettanto plausibile però che questo meccanismo di aggiustamento agisca più (se non troppo) lentamente con il rischio che la "fluttuazione fuori dall’equilibrio" dell’economia perduri e abbia effetti drastici e permanenti. In altre parole, che il centro di gravità del sistema economico e il suo raggiungimento vengano direttamente e irrimediabilmente compromessi.
L’effetto di reddito in un contesto di depressione economica è quello che in un’economia competitiva innescherebbe, secondo Patinkin, un processo deflazionistico in grado di restaurare una domanda aggregata, composta nel caso "semplice" qui considerato esclusivamente da consumo e investimento, tale da ristabilire una posizione di piena occupazione e, perciò, quel livello di attività economica in grado di equilibrare tutti i mercati, quello del prodotto e i mercati dei fattori. Vediamo come.
Una diminuzione del livello dei prezzi stimola direttamente la propensione al consumo. Data l’offerta di denaro in un’economia, se i prezzi calano noi, in quanto consumatori, possiamo permetterci, a reddito invariato, di comprare di più e quindi aumentare il nostro consumo di beni finali. In altre parole, aumenta il nostro reddito reale. Una deflazione indirettamente stimola anche il livello di investimento. Anche se assumiamo, come vorrebbe Keynes, che i risparmi non si traducano immediatamente in investimenti ma solo in un aumento della domanda di denaro per motivi speculativi, una caduta del livello dei prezzi creerà in ultima istanza un incremento di domanda nel mercato delle obbligazioni, anch’esso dovuto all’aumento del reddito reale.
Una volta che si sarà creato un eccesso in tale mercato, il tasso di interesse diminuirà e in tal modo verrà stimolato l’investimento. Questo processo deflazionistico, tuttavia, potrebbe essere inerentemente instabile in quanto una caduta continua e prolungata del livello dei prezzi (e dei salari, e del tasso di interesse) potrebbe portare a un punto di non ritorno. Per esempio, se noi imprenditori ci aspettiamo che domani i salari o il tasso di interesse saranno più bassi di quelli di oggi, rimanderemo a domani quell’espansione dell’attività economica necessaria per stimolare la domanda aggregata. Domani faremmo lo stesso e così via fino a un punto di non ritorno. La depressione economica, perciò, si auto-alimenterebbe anziché correggersi.
Per evitare questa instabilità del processo di aggiustamento che l’effetto di reddito suggerisce, dunque, Patinkin propone l’intervento attivo di una Banca Centrale come sostituto equivalente per superare una temporanea situazione di depressione economica. La Banca Centrale, tramite le sue operazioni a mercato aperto e acquisto di titoli, può direttamente anticipare quella diminuzione del tasso di interesse necessaria per stimolare il livello di investimento. Diminuzione che non deve più aspettare che si inneschi un processo deflazionistico che, abbiamo detto, rischierebbe di allontanare irrimediabilmente i prezzi dal loro livello normale di equilibrio.
Tramite le sue operazioni la Banca Centrale può artificialmente modificare l’offerta di liquidità disponibile nell’economia, la quale, come abbiamo visto, comporta keynesianamente variazioni del tasso di interesse. Variazioni che poi, in accordo con la teoria marginalista, inducono spontanee variazioni inverse sul livello di investimento. Mantenendo la stabilità dei prezzi, quindi, il merito di tale politica monetaria intrapresa da una Banca Centrale sarebbe soltanto quello di accelerare un processo che in un’economia perfettamente concorrenziale (no incertezza, no influenza delle aspettative) l’effetto di reddito non avrebbe nessun ostacolo a mettere rapidamente in atto. Ovvero quel processo di aggiustamento in grado di restaurare una domanda aggregata al suo livello di piena occupazione:
by a primary reliance on a manipulated lowering of the rate of interest, aggregate demand might be raised to its full-employment level without any prior decline in prices. […] such a decline would itself be taken as evidence that the rate of interest had not been lowered sufficiently
(Patinkin, D. Money, Interest and Prices, p. 336).
L’azione di una Banca Centrale, dunque, ha sì un effetto correttivo che influisce sull’attività economica reale in quanto permette di uscire da una depressione e tornare al normale livello di piena occupazione, ma tale effetto reale non è permanente. In altre parole, è solo uno strumento tecnico che non altera il centro di gravità del sistema economico. Da qui la sua neutralità, da qui la legittimazione di una Banca Centrale indipendente.
Ma tale neutralità è il risultato precisamente di quella relazione inversa tra il tasso di interesse e il livello di investimento giustificata esclusivamente dalla premessa che sia possibile derivare la tradizionale curva di domanda di capitale. Curva di domanda la cui derivazione si basa necessariamente sulla specificazione del fattore capitale in quei termini di quantità-valore che le controversie degli anni ’60 hanno da tempo dimostrato come teoricamente indifendibile. Se, dunque, siamo pronti a riconoscere l’inconsistenza della teoria marginalista dell’investimento, allora dobbiamo anche simultaneamente riconoscere la agognata neutralità della politica monetaria come teoricamente infondata.
Questa neutralità della politica monetaria è plausibile solo se ci accettano le premesse di cui la controversia del capitale nega la plausibilità teorica. Ovvero:
- l’esistenza di un centro di gravità del sistema economico caratterizzato da un equilibrio di piena occupazione dei fattori produttivi
- l’esistenza di un tasso di interesse naturale in grado di garantire un livello di investimento tale da mantenere la domanda aggregata al livello di piena occupazione
Per concludere, se siamo pronti a riconoscere questo apparato teorico come l’unica possibile giustificazione, per quanto implausibile, all’indipendenza della BCE come organo imparziale il cui unico scopo è quello di perseguire la stabilità dei prezzi, allora dobbiamo concludere che la questione non è se una misura eccezionale come il PEPP possa superare o meno il limite della pattuita "neutralità" ma, a ben vedere, che questo limite non esiste, ora come sempre. Dobbiamo mettere in discussione, pertanto, le fondamenta teoriche di un’istituzione come la BCE per poterne comprendere le misure. Sono le prime, infatti, a giustificare e legittimare quest’ultime.
Note:
(1) Non abbiamo qui sufficiente spazio per tenere in considerazione gli equilibri cosiddetti Neo-Walrasiani. Questo metodo incontra problemi teorici insormontabili che, tuttavia, non sono direttamente rilevanti per la presente discussione.
(2) Keynes, J. M. (1936) “The General Theory of Employment, Interest and Money”. Cambridge University Press, Royal Economic Society.
(3) Garegnani P. (1964) “Note su consumi investimenti e domanda effettiva (parte prima)”, Economia internazionale, 17, pp. 591-631. Garegnani P. (1965) “Note su consumi investimenti e domanda effettiva (parte seconda)”, Economia internazionale, 18, pp. 575-617.
(4) In Keynes, la produttività marginale del lavoro implica che a variazioni del salario reale corrispondono variazioni inverse nella domanda di lavoro. Ciò che la critica di Keynes vuole sottolineare è che una riduzione del salario monetario non è condizione sufficiente per ottenere una riduzione del salario reale (si veda Capitolo 19 della Teoria Generale).
(5) Patinkin, D. ([1956] 1965) “Money, Interest, and Prices”. New York: Harper & Row Publishers.
[…] la sua visione la grammatica e il lessico usati nell’economia (e non solo) sono quelli della teoria marginalista. Il pensiero economico dominante ha inventato un linguaggio basato su una teoria […]