Come il neoliberismo ha costruito un'egemonia politica e culturale partendo dal mondo anglosassone? Scopriamolo nella seguente analisi.
Contestualizzazione storica
Come presupposto essenziale per l’analisi del ruolo giocato dalla globalizzazione sul finire del XX secolo nell’incremento delle disuguaglianze economiche nei Paesi occidentali è necessario inquadrare questi fenomeni in maniera precisa nel loro contesto storico di riferimento. Ogni studio che prenda in considerazione temi riguardanti la globalizzazione non può prescindere da una conoscenza accurata degli eventi di portata epocale verificatisi nel corso di tutti gli Anni Ottanta e dei primi Anni Novanta, contraddistinti dal disfacimento del modello bipolare a seguito dell’implosione dell’Unione Sovietica e della fine del cosiddetto “socialismo reale”, dall’ascesa degli Stati Uniti al rango di unica superpotenza planetaria e dalla progressiva diffusione dell’ideologia economica neoliberista in campo occidentale e, in seguito, nel resto del mondo.
La crisi del modello keynesiano e lo sviluppo del neoliberismo
Il mondo che si affacciava sugli Anni Ottanta portava su di sé i segni della crisi del modello economico keynesiano verificatasi negli Anni Settanta in seguito all’esaurimento della fase propulsiva di sviluppo economico avviatasi dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, contraddistinta da les trente glorieuses in Francia, dal “miracolo economico” italiano e da un generalizzato incremento del benessere, dei consumi e delle tutele sociali in tutti i Paesi occidentali.
La fine del gold standard e del sistema di Bretton Woods decisa da Richard Nixon nel 1971, la grande crisi petrolifera del 1973, il continuo ripetersi di periodi di “stagflazione” contraddistinti da elevata inflazione e scarsa crescita economica e la caduta generalizzata dei saggi di profitto delle economie capitalistiche portarono a una generale messa in discussione dell’economia keynesiana, che a partire dal mondo accademico si sarebbe poi spostata sul terreno politico.
Gli Stati occidentali non riuscivano più a finanziarsi attraverso il gettito fiscale e quindi erano costretti a ricorrere a una continua emissione di liquidità che erodeva il valore delle loro monete. La stagflazione, per effetto di questa crisi fiscale, smentì uno dei capisaldi della teoria economica keynesiana, ovvero la cosiddetta “curva di Phillips”, che stabiliva una relazione inversa tra l’andamento del tasso di disoccupazione e del livello dell’inflazione in un sistema economico.
Negli Anni Settanta esistevano già da tempo scuole di pensiero e think tank favorevoli a una revisione delle politiche economiche occidentali in senso anti-keynesiano. La società di Mont Pélerin, fondata nel 1947, vide il raggruppamento di una serie di pensatori, economisti e politologi attorno alla figura di Friedrich von Hayek, che nel suo The Constitution of Liberty, pubblicato nel 1960, intuì come la battaglia delle idee avrebbe segnato l’evoluzione della dialettica economica nei decenni a venire.
Il contrasto in questione era rappresentato dalla contrapposizione tra le posizioni allora dominanti in economia politica, che davano centralità all’interventismo statale in economia, alla regolamentazione dei mercati e alla costruzione di strutturati sistemi di welfare state, e le concezioni favorevoli a un’adesione ai “principi di mercato tipici delle teorie economiche neoclassiche, emerse nella seconda metà dell’Ottocento grazie all’opera di Alfred Marshall, William Stanley Jevons e Lon Walras” propugnate da von Hayek e dai suoi seguaci. Presupposto fondamentale dell’impianto teorico ed ideologico da cui trarrà origine il neoliberismo era il rifiuto dell’intervento dello Stato come regolatore dell’economia, dunque la sottrazione della sfera economica dall’ambito d’azione della decisione politica, considerato la chiave di volta per operare una “ristrutturazione del capitalismo internazionale” ritenuta necessaria dai pensatori della scuola di von Hayek.
La scuola di Chicago e la conquista neoliberista del mondo accademico
Il movimento neoliberista si affermò progressivamente nel mondo accademico dopo la costituzione della scuola di Chicago: Hayek, giunto alla University of Chicago nel 1950, gettò il seme della critica all’ideologia keynesiana nell’ateneo dell’Illinois. Nel ventennio successivo, personalità come Milton Friedman, George Stigler e Arnold Harberger approfondirono la loro opposizione al sistema economico imperante: il gruppo dei Chicago Boys ebbe un ruolo cruciale nel definire i presupposti teorici e, soprattutto, ideologici del neoliberismo.
Friedman, in particolare, continuò il lavoro di Hayek pubblicando un testo cruciale, Capitalismo e libertà, che rappresentò il “manifesto” ideologico del nascente neoliberismo. Nel libro, che divenne un vero e proprio best-seller, Friedman, rivolgendosi a un pubblico di massa e non solo al contesto accademico,
teorizzò il capitalismo basato sulla libera concorrenza privata al tempo stesso come uno strumento per ottenere la libertà economica e un presupposto necessario per la libertà politica.
Il lavoro dei membri della scuola di Chicago trovò a partire dai primi Anni Settanta il sostegno di numerosi gruppi di interesse e think tank derivanti dall’originaria società di Mont Pélerin tanto negli Stati Uniti quanto in Gran Bretagna: la Heritage Foundation, l’Institute of Economic Affairs e la Business Roundtable, fondati al principio del decennio, giocarono un ruolo di primo piano nella veicolazione delle idee neoliberiste tanto nel mondo accademico quanto nel mondo politico. Essi finanziarono studi approfonditi, veicolarono tanto la componente accademica quanto il versante ideologico del neoliberismo e propugnarono attivamente cambi di politica favorevoli all’apertura dei mercati, alla ritirata dello Stato dalla gestione dell’economia e alla tutela degli interessi delle grandi corporations.
La convergenza dirompente tra teorici del neoliberismo, grandi consorzi industriali e settori del mondo politico avversi al sistema vigente è apprezzabile analizzando un documento indicativo della velocità di radicamento della nuova scuola di pensiero: il Powell Memorandum del 23 agosto 1971. Esso fu inviato da Lewis F. Powell, avvocato aziendale destinato entro poche settimane a venire nominato membro della Corte Suprema statunitense da Richard Nixon, a Eugene Sydnor jr., presidente della Camera di Commercio USA.
Il contenuto altamente indicativo e rilevante del documento è stato così commentato da Jamie Court, attualmente presidente della non-profit Consumer Watchdog: “Powell sosteneva che le critiche e l’opposizione al sistema americano della libera imprese si erano spinte troppo in là, e che era giunto il momento di mettere in campo la lungimiranza, l’ingegno e le risorse delle imprese americane contro coloro che avrebbero voluto distruggerle. […] La Camera di Commercio nazionale, affermava Powell, avrebbe dovuto porsi alla testa di un attacco alle maggiori istituzioni – le università, le scuole, i media, il mondo dell’editoria, i tribunali – al fine di cambiare le opinioni individuali in merito alle grandi aziende, la legge, la cultura e l’individuo”. Molti commentatori critici, tra cui l’italiano Luciano Gallino, hanno interpretato le parole di Powell come la dimostrazione di una chiara e manifesta volontà di sovvertimento dell’ordine politico e ideologico in favore dell’interesse privato dei grandi gruppi d’affari sponsor della diffusione del pensiero neoliberista.
In ogni caso, molte delle strategie d’azione propugnate da Powell, nei fatti, stavano già venendo applicate concretamente nel 1971: anni prima, ad esempio, la National Review fondata da William F. Buckley aveva iniziato un’opera di attiva propaganda del pensiero neoliberista all’interno del mondo politico conservatore americano, veicolandola al fine di utilizzarla come mezzo di sintesi tra le tre principali anime frazionate del Partito Repubblicano statunitense, focalizzate rispettivamente su anticomunismo, libertarismo e tradizionalismo. Buckley voleva rendere la National Review per il neoliberismo, ciò che Nation e New Republic erano state per il New Deal di Franklin Delano Roosevelt: sostegno e stimolo al tempo stesso.
Il conferimento del Premio Nobel per l’Economia a von Hayek, nel 1974, e a Friedman, due anni dopo, rappresentò in tal contesto il coronamento del percorso di crescita del neoliberismo. La dottrina economica influenzò notevolmente le prese di posizione dei partiti conservatori di USA e Gran Bretagna, la cui ascesa nei primi Anni Ottanta sarebbe stata la premessa all’affermazione generalizzata della nuova ideologia in tutto il mondo occidentale e, di conseguenza, dell’impostazione di un tracciato di evoluzione delle dinamiche mondiali che avrebbe portato all’affermazione della globalizzazione neoliberista.
Il neoliberismo nelle istituzioni: da Pinochet a Reagan
Prima ancora del conferimento del Nobel a von Hayek e Friedman, quest’ultimo aveva contribuito direttamente all’instaurazione del primo sistema economico statale direttamente ispirato ai dettami del pensiero neoliberista: il governo militare cileno costituitosi dopo che, l’11 settembre 1973, il generale Augusto Pinochet aveva destituito il Presidente socialista Salvador Allende con un brutale colpo di Stato. Il nuovo governo affidò a economisti della scuola di Chicago il compito di ristrutturare il sistema economico del Paese e di azzerare gli effetti delle riforme di Allende.
David Harvey ha riassunto efficacemente le riforme portate avanti dai Chicago Boys e dai loro omologhi cileni con il placet del regime di Pinochet e del Fondo Monetario Internazionale:
privatizzarono beni pubblici, resero le risorse naturali (pesca, legname ecc.) accessibili a uno sfruttamento del tutto privo di regole (che in molti casi calpestò senza alcuno scrupolo i diritti delle popolazioni locali), privatizzarono la previdenza sociale, agevolarono gli investimenti stranieri diretti e il libero scambio; fu garantito il diritto delle società straniere al rimpatrio dei proventi delle loro operazioni in Cile; alla sostituzione delle importazioni si preferì una crescita basata sulle esportazioni.
L’esperienza cilena risultò determinante nello spianare la strada all’affermazione delle politiche neoliberiste anche nei Paesi occidentali a capitalismo avanzato nel momento in cui, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, vennero eletti leader che ne erano dichiarati fautori.
In misura maggiore rispetto alla sua controparte britannica, Margaret Thatcher, Ronald Reagan fu il principale artefice dell’affermazione del nuovo ordine economico dopo la sua ascesa alla presidenza degli Stati Uniti nel 1980 in seguito alla vittoria delle elezioni contro lo sfidante democratico Jimmy Carter. La vittoria di Reagan fu il risultato di un’importante convergenza verificatasi all’interno del Partito Repubblicano statunitense tra le tradizionali basi di consenso conservatrici del Grand Old Party nel Nord degli USA, gli interessi della destra religiosa del Sud-Ovest del Paese e le volontà neoliberiste dei gruppi di interesse citati e dei rappresentanti del grande business statunitense. Su tale piattaforma venne edificata la base di consenso che porterà l’ex attore hollywoodiano a due travolgenti affermazioni alle elezioni del 1980 e del 1984, nelle quali conquistò rispettivamente 44 e 49 Stati degli USA.
L’affermazione di Reagan negli USA e della Thatcher nel Regno Unito aprì la strada all’implementazione massiccia di politiche di stampo neoliberista nell’economia dei due Paesi. In particolar modo, i principi della cosiddetta Reaganomics implementata negli Stati Uniti lungo tutto il corso degli Anni Ottanta si basavano su quattro capisaldi di chiara matrice neoliberista: la riduzione del tasso di crescita della spesa pubblica, la contrazione delle aliquote massimali di tassazione sui guadagni di capitale, la deregulation e la liberalizzazione di numerose attività produttive, la restrizione dell’offerta di moneta da parte della Banca Centrale al fine di ridurre l’inflazione.
È necessario sottolineare come le prese di posizione dell’amministrazione statunitense in materia di politica economica interna si accompagnarono a un deciso rinfocolamento della contrapposizione con l’Unione Sovietica nell’ambito della dialettica bipolare della Guerra Fredda. La tensione internazionale portò, nella prova pratica, a una sconfessione di alcuni obiettivi iniziali di Reagan. La contrazione della spesa pubblica, infatti, non si manifestò, principalmente a causa del rilancio degli investimenti nel settore della Difesa, che a causa della rinnovata corsa alle armi avrebbe finito per ammontare nel 1988 all’esorbitante cifra di 393,1 miliardi di dollari (5,8% del PIL e 27,3% del totale complessivo delle spese federali).
In tale situazione il debito pubblico degli Stati Uniti esplose, toccando la quota di 2.850 miliardi di dollari alla fine del secondo mandato di Reagan (era pari a 907 miliardi nel dicembre 1980), ma al tempo stesso si produsse una dirompente evoluzione del contesto geopolitico. L’insostenibilità della corsa agli armamenti con gli Stati Uniti, unitamente alla voragine di bilancio dovuta alla dispendiosa campagna militare in Afghanistan e alla manifestazione di rovinose carenze strutturali nel suo modello economico, condussero l’Unione Sovietica, sul finire degli Anni Novanta, nel baratro di una profondissima crisi, dalla quale l’antagonista degli Stati Uniti nel mondo bipolare non si sarebbe più ripresa.
Anche dopo il riavvicinamento e l’inizio del dialogo tra Reagan e Michail Gorbaciov, suo omologo sovietico, infatti, la superpotenza comunista non seppe superare le numerose problematiche che la affliggevano: il tumultuoso biennio 1989-1991 sancirà la fine dei regimi comunisti nei Paesi dell’Europa Orientale e si concluderà con l’implosione dell’Unione Sovietica. Il tentato colpo di Stato contro Gorbaciov dell’agosto 1991, in particolare, rese chiara agli occhi del mondo l’inevitabilità del collasso dell’Unione Sovietica, che si sarebbe consumato sul finire dell’anno dopo la secessione di tutte le repubbliche costituenti la struttura federale del Paese.
Trionfo e crisi della globalizzazione neoliberista
La disgregazione del principale competitore degli USA sul livello politico, economico, strategico ed ideologico portò le alte sfere dell’amministrazione di Washington a sviluppare una dottrina geopolitica che partiva dal presupposto secondo il quale gli Stati Uniti, rimasti l’unica superpotenza del pianeta, avrebbero dovuto assumersi il compito di rinforzare la leadership “monopolare” sul resto del pianeta. Teorici come Francis Fukuyama parlarono addirittura di “fine della Storia”, definendo ineluttabile un futuro connotato dall’espansione del modello politico-economico statunitense al resto del mondo, portata avanti principalmente attraverso politiche di stampo neoliberista che avrebbero visto nell’integrazione dei mercati mondiali il loro principale obiettivo. Tale obiettivo era apertamente caldeggiato da gruppi di interesse legati alle principali multinazionali, che sin dal principio della globalizzazione furono sue attive patrocinatrici.
La globalizzazione di stampo neoliberista fu incentrata essenzialmente sull’implementazione del ruolo regolatore di diverse strutture sovranazionali preesistenti: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, ad esempio, avevano iniziato a operare dopo la fine del secondo conflitto mondiale, e già negli anni Ottanta avevano supportato il Dipartimento del Tesoro USA nell’elaborazione di piani di sviluppo economico e crescita per le economie meno industrializzate, in particolar modo nell’area latinoamericana, rispondenti ai principi del neoliberismo. Nel 1989 l’economista John Williamson coniò per l’insieme di proposte di politica economica formulate dalle tre istituzioni in questione, basate nella capitale statunitense, l’espressione di Washington consensus.
L’applicazione del principio del laissez-faire in campo economico e dell’apertura degli scambi commerciali fu in particolar modo incentivata dalla Banca Mondiale dopo che, tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio degli Anni Novanta, numerosi report da essa pubblicati misero in connessione l’intensivo sviluppo conosciuto dalle “Quattro Tigri” asiatiche (Corea del Sud, Singapore, Hong Kong, Taiwan) con l’applicazione sistematica, da parte di questi Paesi estremo-orientali, di politiche di forte impronta neoliberista. La realtà delle cose, di fatto, era molto più complessa di quanto descritto dall’istituzione finanziaria, dato che i Paesi avevano conosciuto uno sviluppo economico antecedente agli Anni Ottanta ed erano contraddistinti da forme di governo autoritarie e da significative compressioni dei diritti umani, ma in conclusione gli studi della Banca Mondiale contribuirono notevolmente alla promozione della teoria economica neoliberista al di fuori dal campo occidentale.
La globalizzazione dei mercati internazionali e la liberalizzazione degli scambi fu ampiamente veicolata dai notevoli miglioramenti occorsi nelle modalità di comunicazione consentiti dallo sviluppo delle tecnologie informatiche, che permise tra le altre cose una maggiore interconnessione dei mercati finanziari, e vide la sua principale manifestazione nel proliferare dei trattati di libero scambio nel corso degli Anni Novanta.
Già dal 1948 era entrato in vigore il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), un accordo multilaterale firmato da 23 nazioni del campo occidentale che aveva stabilito regole di standardizzazione delle tariffe doganali, dei diritti di commercio e dei meccanismi di movimento dei capitali. In una serie di incontri successivi, le nazioni firmatarie del GATT (tra le quali nel 1949 si era aggiunta anche l’Italia) avevano concordato politiche di riduzione dei dazi che colpivano le merci in entrata sul loro territorio, abbassatisi da un livello medio del 22% nel 1947 a un livello medio del 15% nel 1967.
Nel 1986 iniziò la più importante e decisiva sessione di riunioni multilaterali dei Paesi aderenti al GATT, denominato Uruguay Round perché inaugurato dall’incontro di Punta del Este, città della piccola nazione sudamericana, del settembre 1986. Protrattesi per otto anni, le discussioni riguardavano la restrizione degli ostacoli agli investimenti internazionali, l’abolizione delle barriere che impedivano l’internazionalizzazione dei sistemi bancari ed assicurativi, la liberalizzazione del settore agricolo attraverso la diminuzione dei sussidi concessi dai governi nazionali e la definizione di un codice comune sui diritti di proprietà intellettuale e sui brevetti.
La caduta dell’URSS e la fine del bipolarismo garantirono un’accelerazione significativa ai colloqui dell’Uruguay Round, che nelle diverse sessioni susseguitesi nel corso degli anni avevano interessato complessivamente 124 nazioni del mondo. Il 15 aprile 1994, nella città marocchina di Marrakech, fu siglato l’accordo che concluse le trattative, sancendo l’instaurazione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization, WTO), che negli anni successivi sarebbe diventata l’emblema stessa della globalizzazione. Al 2016, la pervasività dell’influenza che il WTO e le politiche di libero scambio da esso propugnate hanno saputo conquistarsi nel mondo è testimoniata dal fatto che solo 15 dei 193 Stati membri delle Nazioni Unite non aderiscono all’Organizzazione Mondiale del Commercio: si tratta o di Paesi di minuscola rilevanza demografica ed economica (come San Marino, Nauru e Principato di Monaco) o di Stati governati da regimi dittatoriali chiusi ai rapporti di scambio col resto del mondo (come Turkmenistan, Eritrea e Corea del Nord).
Nel contempo, la strutturazione del sistema di trattati commerciali è proseguita attraverso la costituzione di accordi regionali o transcontinentali fondati sui regolamenti stabiliti nelle discussioni che condussero alla nascita del WTO. Nel corso degli anni, l’implementazione di tali accordi è stata accompagnata da numerosi contenziosi a livello politico e sociale, dato che il progressivo incedere del processo di globalizzazione aveva causato, in campo occidentale ma non solo, lo sviluppo di forti resistenze.
Le proteste dei contadini messicani seguite all’approvazione del North American Free Trade Agreement, le animate e a tratti violente manifestazioni dei movimenti no-global che hanno segnato i primi anni Duemila e le attuali resistenze incontrate dai progetti di trattati commerciali di ampissima portata come il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) hanno testimoniato l’esistenza, a diversi livelli della società e in diverse aree del pianeta, di un’opposizione significativa alle politiche di liberalizzazione dei mercati e globalizzazione dei commerci. Ciò è stato dovuto alla percezione di numerose distorsioni sistemiche prodottesi nei sistemi economici più avanzati parallelamente alla crescita generale degli scambi su scala planetaria.
La prossima analisi si concentrerà, infatti, proprio sull’analisi del ruolo giocato dall’ascesa della teoria ed ideologia economica neoliberista a vulgata di riferimento e dallo sviluppo dei processi di globalizzazione su scala planetaria sulla crescita, repentina e in un primo momento difficile da spiegare, dei livelli di disuguaglianza economica nelle economie occidentali tra gli Anni Ottanta e Novanta. Si tratta di un tema di importanza cruciale per l’analisi delle distorsioni interne a un sistema che, ritenuto da politici, economisti e imprenditori di tutto il mondo come l’unica via di sviluppo per l’economia planetaria, nell’ultimo decennio ha conosciuto gravissime battute d’arresto.
A partire dalla Grande Crisi del 2007-2008, infatti, si è sempre di più palesata l’insostenibilità del modello di globalizzazione monopolare: la gravissima recessione conosciuta dalle economie occidentali, che è stata causa di un’ulteriore impennata nei livelli di disuguaglianza, e l’ascesa economica di nuovi attori di statura planetaria come Cina ed India impongono la necessità di un cambio di paradigma, per il quale è tuttavia necessario uno studio razionale e coerente delle problematiche del sistema economico odierno a partire dalla sua costituzione tra gli Anni Ottanta e Novanta.
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Questo articolo fa parte del nostro dossier sulla disuguaglianza. Qui la nostra prima puntata.
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