Nel saggio L’Anima dell’Uomo sotto il Socialismo, Oscar Wilde fornisce una versione peculiare del socialismo. La sua tesi è che, grazie alla rivoluzione tecnologica compiuta durante la seconda rivoluzione industriale, presto si sarebbe andati incontro a una netta separazione tra lavoro e reddito. In questo modo, svincolati dalla ricerca esasperata di un salario con cui sostentarsi, gli esseri umani avrebbero potuto sfogare la loro potenza creatrice e raggiungere nuove vette come avevano fatto Darwin, Flaubert e altri grandi pensatori del loro tempo.
Queste idee sono tornate di moda all’interno del dibattito economico, soprattutto a sinistra. Ne è un esempio Inventare il Futuro di Nick Srnieck e Alex Williams. I due autori, dopo una serrata critica alla sinistra tradizionale, sviluppano una nuova piattaforma di lungo respiro della sinistra: tra gli obiettivi vi è la completa automazione di tutti quei compiti che possono essere svolti da una macchina e l’istituzione di uno Universal Basic Income (reddito di base universale).
La liberazione dal lavoro salariale è solo uno dei tanti vantaggi che la rivoluzione tecnologica può portare. L’ottimismo nei confronti della digitalizzazione è altresì condiviso dai governi occidentali. Non è un caso infatti che i fondi del Next Generation EU abbiano come scopo, tra le altre cose, la modernizzazione dei paesi dell’Unione, che sul frangente digitale sono rimasti indietro rispetto, ad esempio, ai paesi più sviluppati del continente asiatico. Già oggi alcuni paesi, come l’Estonia, sono approdati a una forma di Digital Government.
Anche in Italia sono stati fatti dei tentativi di modernizzazione, soprattutto durante il governo Renzi quando il compito venne affidato a Diego Piacentini. Tuttavia l’Italia, a causa dei tagli alla spesa pubblica effettuati nel corso degli anni, non ha mai rinnovato la propria pubblica amministrazione che, pur essendo tra le più produttive, manca di capacità dinamiche e di conoscenze informatiche.
Tuttavia questo sentimento di ottimismo nei confronti del digitale e della rivoluzione tecnologica che vediamo intorno a noi, è accompagnato da un sentimento di luddismo diffuso soprattutto nelle fasce meno giovani della popolazione. Basti pensare all’introduzione di un’app per il contact tracing nel contesto del contrasto alla diffusione del virus che ha suscitato da più parti un’ondata di scettici: nonostante la GDPR sia chiara riguardo la privacy, questo non ha impedito a una parte considerevole della popolazione di diffidare da questo tipo di applicazioni.
Nonostante le preoccupazioni riguardanti la privacy non siano da sottostimare, vi è però una preoccupazione ancor maggiore riguardo questa nuova rivoluzione tecnologica. Ovviamente ogni grande trasformazione ha posto dei problemi ai decisori dal punto di vista politico ed economico. La nascita del moderno capitalismo, a cavallo del secolo scorso, ha portato il Governo a una politica estremamente interventista. Non potevano, da soli, i privati sviluppare lo scheletro di infrastrutture necessarie a far funzionare un’economia che era sempre più connessa e che richiedeva sempre maggiori costi. Ovviamente l’economia classica, nella sua formulazione teorica, ha ben presto integrato questa forma di intervento statale: lo Stato doveva intervenire nell’ambito dei beni pubblici.
La trasformazione a cui stiamo andando incontro tuttavia rischia di esacerbare ancora di più le conflittualità sociali e aumentare le disuguaglianze. Se infatti le precedenti trasformazioni hanno portato a un reimpiego dei lavoratori che avevano perso il lavoro -ne è un esempio la migrazione dalle campagne alle città durante la Seconda Rivoluzione industriale con i contadini che cercavano lavoro nelle fabbriche- questa intercambiabilità lavorativa sarà molto più difficile in questo contesto.
Come afferma nel suo 21 idee per il XXI secolo lo storico Harari, proprio questa caratteristica è una bomba a orologeria. Una cassiera che perde il lavoro non può, senza un adeguato training, reinserirsi nel mercato del lavoro come Analista dei Dati o Progettatore di Piattaforme Cloud. La tecnicità di questa nuova rivoluzione, dovuta alle scoperte nel campo dell’intelligenza artificiale durante il secolo scorso e ai moderni algoritmi di machine learning o deep learning, rende estremamente difficile la mobilità.
Il costo, a livello di occupazione, di questa rivoluzione digitale è stato calcolato da Frey e Osborne. Le loro conclusioni hanno destato scalpore: il 47% della forza lavoro americana è ad alto rischio automazione, dove per alto rischio si intende il 70% nei prossimi anni. Lo studio è stato oggetto di dibattito nel corso del tempo: non si tiene conto, per esempio, che anche i lavori scarsamente qualificati implicano un certo livello di “soft skills” che difficilmente saranno performabili dalla macchina; non si è tenuto conto degli effetti macroeconomici causati da una maggior produttività; non si è tenuto conto che anche i lavori ad alta specializzazione rischiano di essere a rischio come dimostra l’articolo “Programmatori che programmano il loro licenziamento” pubblicato qualche tempo fa su Internazionale.
Ma il problema più grande, evocato spesso e volentieri dagli scettici nei confronti dell’Universal Basic Income (UBI) come sorta di teoria cospirazionista, è l’accentramento dei mezzi di produzione nelle mani di pochi, creando così un vero e proprio oligopolio, con un numero esiguo di lavoratori. Grazie all’UBI le big corporation potrebbero “tenere capra e cavoli”: da una parte continuare a produrre e piazzare i loro prodotti sul mercato, dall’altra non avere più dipendenti e non tenere conto delle condizioni di lavoro dei robot.
Il livello di conoscenze tecniche necessarie per avanzare proposte nel contesto della suddetta trasformazione è molto alto; come se non bastasse, proposte apparentemente risolutive, portano con sé dei trade-off alquanto problematici.
Una proposta, portata avanti durante le Presidenziali francesi del 2017 da Benoit Hamon, leader del Partito Socialista, era la tassa sui robot. Se da una parte questa proposta va nella direzione giusta, dall’altra non riesce a cogliere davvero la dimensione del problema.
Come si può fare a salvaguardare i posti di lavoro, ad esempio delle impiegate, rese sempre meno necessarie da algoritmi in grado di fare il loro lavoro? Tanto per fare un esempio: poco più di un anno fa un’amica, che aveva appena cominciato a lavorare per una ceramica, mi raccontò di aver passato un intero pomeriggio a riordinare fatture salvo poi scriverle in ordine su un file. Tutto ciò, tuttavia, può essere fatto in pochissimo tempo da un computer: si tratta infatti di un problema di ordinamento per cui esistono svariati algoritmi anche abbastanza triviali come il Bubble Sort. Un programma del genere potrebbe essere scritto da un qualunque conoscitore di un linguaggio informatico ad alto livello nel giro, al massimo, di qualche giorno.
L’unica proposta che sembra funzionare, ma ha effetti ritardati, è puntare su una formazione scolastica più aperta tale da non specializzare, in maniera esagerata, un giovane. Se infatti procediamo con dei livelli di specializzazioni troppo elevati, alle scuole superiori, e non inseriamo un percorso post diploma, rischiamo che in poco tempo le conoscenze acquisite dagli studenti saranno obsolete nel giro di qualche anno. Per questo, come sta facendo l’Emilia Romagna, bisogna mettere in atto un serio programma di corsi, in modo da tamponare le carenze.
Questo discorso, in generale, ci deve far tornare a un concetto chiave negli Stati Moderni: il concetto di Cura. Proprio su questo tema si basava la strategia del Labour Party di Attlee, quando nel ‘45 dopo la vittoria alle General Election fondò uno dei gioielli del Regno Unito: il National Health Service. Bisogna pertanto lasciarsi alle spalle politiche fin troppo lassiste, fondate sul motto di Alesina e Giavazzi “non bisogna salvare i posti di lavoro ma il lavoro stesso” e ritornare a uno stato che governi la rivoluzione tecnologica e allo stesso tempo curi quelle situazioni di disagio che inevitabilmente si verranno a creare.