Dal 2017 ad oggi solo 31 delle 96 grandi opere dal valore di più di 50 milioni di euro bandite o aggiudicate hanno raggiunto l’avvio dei lavori. Meno di una su 3. E se consideriamo gli importi, ovvero il valore di queste infrastrutture, su oltre 25 miliardi solo 5 (il 20%) sono passati alla fase del cantiere, che è quella che genera spesa reale.
Questi numeri riportati da Il Sole 24 Ore mostrano chiaramente un problema. Un problema che riguarda nello specifico le gare d’appalto per opere pubbliche in Italia. Infatti, la narrazione corrente vuole che gli intoppi più grossi riguardino non le gare ma le mancate programmazioni e le autorizzazioni che precedono i bandi, che sono dei veri e propri campi minati. Il che è certamente vero: ma a peggiorare il quadro, i numeri mostrano che anche nella fase successiva, quella delle gare, le cose non migliorano, anzi. Il caso della variante ferrovia di Bari è emblematico: bandita nel febbraio 2015, è stata assegnata solo a fine marzo 2020 per un importo di 83 milioni di euro. Tempi biblici anche per l’impianto di depurazione di Napoli o la circonvallazione di Merano. Ma ci sono anche infrastrutture che aspettano ancora di trovare il general contractor: parte della ferrovia Circumetnea o la terza corsia dell’A1 all’altezza di Firenze. Si perde tempo anche nella fase che va dall’aggiudicazione dell’opera all’apertura del cantiere: è il caso del nuovo terminal passeggeri dell’aeroporto di Verona o del maxi-collettore di Torino. In media, passano 18 mesi dall’assegnazione del bando all’inizio dei lavori. Ma poi ci sono anche i casi in cui piovono ricorsi e carte bollate o le gare andate deserte o ancora persino revocate a distanza di anni, com’è successo per la terza corsia dell’A11 Firenze – Pistoia.
La realizzazione di un’opera pubblica costituisce sempre un percorso incerto. Gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo: le condizioni metereologiche, il ritrovamento di materiali nocivi o di complessi archeologici, per non parlare di danneggiamenti inaspettati di altre costruzioni o infiltrazioni mafiose e potremmo continuare. Tutto ciò allunga i tempi in maniera considerevole, oltre a causare un numero considerevole di “incompiute”, vera e propria piaga del Paese in questo settore. Ma come si vede, in Italia la realizzazione di opere, a maggior ragione se grandi (oltre 50 milioni di euro) è paragonabile ad un’Odissea. Dagli studi di fattibilità ai collaudi, passando per finanziamenti, pareri, espropri e cantieri, l’iter può fermarsi in ogni momento. Secondo alcuni studi, la metà del tempo necessario per la realizzazione di una grande opera trascorre nella fase pre-cantiere (7 anni su 15). E come abbiamo visto, i bandi di gara non costituiscono un vulnus meno pericoloso rispetto ad altre fasi dell’iter.
Il dibattito politico attuale discute sul Codice degli Appalti: c’è chi come la Lega vorrebbe cancellarlo come con un colpo di spugna ed adeguarsi alla normativa europea e chi lo difende perché ne è l’autore come il Pd (visto che la forma attuale del Codice risale al 2016) e M5s (che lo ha modificato con il Decreto Sblocca Cantieri). Certamente lo stato di eccezione non può divenire normalità: la presenza dei commissari deve essere caratteristica di questa fase storica emergenziale. Altrimenti a cosa serve il Codice? Inoltre, giudicheremo l’impatto del decreto Semplificazioni più avanti: in particolare l’articolo 2 del decreto permette al commissario di agire in deroga al codice ma dalle parti dei costruttori e del mondo dell’edilizia pare assodato che le norme entrate in vigore siano inapplicate. Come se non bastasse, ci si è messa anche la pandemia da SarsCoV2 a far rinviare scadenze e assegnazioni da parte delle stazioni appaltanti.
La contingenza storica attuale vede un approssimarsi di ingenti finanziamenti (prestiti e sussidi) provenienti dalla Commissione Europea che sta contraendo debito comune tramite l’emissione di eurobond. Se aggiungiamo le risorse disponibili del Fondo di Sviluppo e Coesione e degli accordi pluriennali sempre di orbita europea più i fondi ordinari dello Stato, siamo autorizzati a pensare che la mancanza di denari non sarà il primo dei problemi. D’altronde, a conferma di ciò, c’è il fatto che circa il 75% delle opere commissariate da poco approvate dalle commissioni trasporti del Parlamento siano già finanziate.
C’è da chiedersi quanto saremo virtuosi nello spendere questi fondi. Fino ad adesso, in particolare le regioni del Sud non hanno brillato in capacità di spesa. Spesso sono mancate competenze sia in numero sia in qualità che avrebbero permesso di intercettare i fondi europei, che invece sono stati dirottati presso altri paesi membri. Ecco le carenze principali del bel Paese in materia di opere pubbliche.
Tuttavia, non dobbiamo vedere tutto in nero. In Italia sono presenti gruppi privati e pubblici che mantengono una buona leadership nel campo della realizzazione e progettazione di opere infrastrutturali a livello internazionale. Il know how di società come WeBuild o Italferr (appartenente a Ferrovie dello Stato) è ampiamente riconosciuto. In più negli ultimi anni le statistiche mostrano un incremento degli investimenti nel settore: come l’Alta Velocità ferroviaria, che insieme ai Frecciarossa ha cambiato il volto dell’Italia in meglio. C’è ancora molto da lavorare ma chissà che la “congiunzione astrale” pandemia-Recovery Plan non costituisca un punto di svolta in tal senso.