Tipicamente, quando all’interno del dibattito pubblico emerge il tema della ricerca, questo viene sempre trattato con enfasi, con toni di ammirazione, accompagnato da dichiarazioni di esponenti politici bipartisan che promettono (senza mantenere, ben inteso) fondi e incentivi. Se ne parla come di un mondo che magicamente porterà all’innovazione, coperto da un’aura di inaccessibilità e mistero. Se quasi nessuno ricorda di menzionare il fatto che l’Italia è l’ultimo paese in Europa per spesa nel comparto universitario, sicuramente nessuno menziona mai le condizioni nelle quali i ricercatori e le ricercatrici portano avanti il loro mestiere.
Nemmeno la retorica dei “cervelli in fuga” rende l’idea: perché è molto diverso raccontare le storie, dolorose, ma di successo, di coloro che andandosene dall’Italia hanno trovato posizioni, fondi, prestigio che qui erano loro negati, oppure provare a spiegare l’interminabile lista di piccoli e grandi disagi quotidiani che devono essere affrontati da coloro che rincorrono un assegno, che fanno più ricerca di fondi che ricerca nel proprio campo, che ogni uno o due anni sono costretti a cambiare città, Paese, continente in un vortice di burocrazia, riadattamento, sfilacciamento dei rapporti personali, nell’impossibilità di pianificare per sé o per il proprio lavoro. Si dimentica spesso, infine, di menzionare che meno del 10% di coloro che entrano nel mondo della ricerca non sarà espulso o che in meno di un decennio il numero totale degli impiegati nel settore in Italia si è dimezzato.
Insomma, quando si parla di ricerca ci si dimentica sempre dei ricercatori e così si incorre nell’errore di pensare che una vita di continui spostamenti e traslochi sia una vita divertente perché “si combatte la monotonia”, o che ci sia una sorta di romanticismo nel ricevere borse di dottorato con le quali è praticamente impossibile pagare un affitto in due terzi d’Italia, o, peggio, di mitizzare la scelta di una carriera difficile e competitiva che però, essendo intellettualmente appagante, si pone “al di sopra” delle basilari regole del rispetto del lavoro: si rischia insomma di pensare che la devozione dei ricercatori esaurisca le loro esistenze, persino biologiche, nell’unica dimensione del loro lavoro.
La ricerca basta a riempire una vita? Sicuramente, ma se tutte le ricerche, le intuizioni e le innovazioni sono frutto delle condizioni materiali nelle quali sono concepite, indirizzate dai finanziamenti che ricevono e legate al tipo di scambio tra colleghi che avviene, è altrettanto vero che niente di buono per la ricerca può venire dal nomadismo, dal precariato e dall’autosfruttamento che ormai pervadono l’accademia, non solo in Italia.
La precarietà cui sono esposti molti ricercatori ha un profondo impatto sulla libertà con cui possono definire i propri programmi di ricerca e sulla sicurezza con cui possono impostare un percorso di studio pluriennale. I ripetuti rinnovi dei contratti, l’alea dei concorsi, i prolungati periodi di disoccupazione tra un assegno e l’altro: tutti questi fattori concorrono a impedire ogni programmazione di progetti di ricerca ambiziosi e autonomi, di largo periodo e di lungo respiro, che possano effettivamente aprire nuove strade e nuovi squarci di pensiero.
Si è costretti a ripiegare su ricerche di piccolo cabotaggio, brevi articoli – questo è ragionevole produrre in un assegno annuale –, talvolta sconnessi l’uno dall’altro, che spaziano in vari campi, che toccano argomenti di tendenza o si rifanno tout court al programma di ricerca di questo o quel professore che ha coinvolto il ricercatore di turno nel suo progetto. È bene rimarcare come non sia una questione che riguardi l’apprendistato, il fare la “gavetta” per imparare il mestiere: è una questione che attiene alla libertà di condurre la propria ricerca in autonomia. Gli interessi scientifici del singolo ricercatore precario passano in secondo piano e così le sue idee. L’orizzonte è il prossimo concorso, fra un anno. Meglio lavorare sul job market paper e lasciar perdere quella linea di ricerca che sembrava tanto promettente e forse, chissà, pure dirompente. Mieux n’épater pas les bourgeois, soprattutto se in commissione.
Questa situazione si traduce in un importante spreco per il nostro Paese. Quando un ricercatore decide di migrare all’estero (spesso peraltro coltivando il desiderio di rientrare) o viene costretto ad abbandonare la ricerca per poter avere una prospettiva di carriera o di vita più stabile, non assistiamo solo ad una scelleratezza finanziaria, ad un dispendio inaccorto di risorse pubbliche. Non si tratta solo di aver allontanato del personale che il sistema universitario ha formato sostenendo costi significativi, cui non si accompagna un’analoga attrattività nei confronti di ricercatori stranieri. Non è una perdita meramente monetaria, o attinente solo alla traiettoria di sviluppo tecnologico su cui si pone il Paese. È una perdita sociale. L’espulsione dal sistema italiano di molte ricercatrici e di molti ricercatori trova un preoccupante punto di caduta nello scadimento del dibattito pubblico, in cui queste voci, specie quelle più giovani, che per la loro preparazione e la loro vocazione scientifica e civile avrebbero potuto dare un alto contributo all’indirizzo politico della nazione, non hanno più spazio né opportunità di farsi sentire.
Il “nomadismo” tanto decantato, quando da condizione di scambio e arricchimento – caratteristica di tutte le professioni intellettuali –, diventa un tour de force di traslochi e un continuo inseguimento di possibilità di sostenibilità finanziaria, aiuta solo le compagnie aeree, non certo le idee. È così che le preoccupazioni per le vite individuali, dovute alle condizioni di intermittenza reddituale e ai continui spostamenti, finiscono per inghiottire le energie che si sarebbero potute usare per affinare ed elaborare ragionamenti e intuizioni; soprattutto, queste condizioni avverse privano la ricerca delle due dimensioni di cui ha più bisogno, cioè quella del tempo – tempo per riflettere, far sedimentare i pensieri ma anche per sbagliare, perché la scienza procede per errori più che per successi – e dello scambio, cioè della costruzione di rapporti umani prima che professionali. Senza tempo e scambio non si fa innovazione, figurarsi scoperte. In ultima analisi, ciò che si perde costringendo i giovani ricercatori ad una vita all’impronta del precariato, è la possibilità di pensare coraggiosamente il futuro.
[…] quindi, non è accentrarli, ma aumentarli. E questo è possibile solo attraverso investimenti, in ricerca ovviamente, ma anche in accesso alla formazione […]
Complimenti, finalmente un quadro che rispecchia in pieno la realtà della ricerca in Italia.