Di Letizia Molinari
Se una cosa buona dall’ultima COP26 è uscita, probabilmente è quella di intavolare nel contesto di un incontro multilaterale sul clima il tema della responsabilità dei combustibili fossili nell'innalzamento dei livelli di diossido di carbonio nell’atmosfera. Nonostante l’accordo finale sia stato un deludente gioco al ribasso sul carbone, lontano dalle aspettative dell’opinione pubblica mobilitata in massa negli ultimi mesi, la direzione è stata finalmente definita: i combustibili fossili sono da lasciare sotto terra.
Il modo in cui questa impresa verrà realizzata è però ancora poco chiaro e numerosi interrogativi si pongono per i prossimi anni a venire. Come conciliare le politiche climatiche con i crescenti bisogni dei Paesi in via di sviluppo? Quali responsabilità hanno i Paesi occidentali e in che modo dovranno accompagnare la transizione ecologica del Sud Globale? Cercheremo di tornare sul ruolo dell’Occidente nelle emissioni globali sottolineando due aspetti da non dimenticare: le emissioni indirette e il colonialismo fossile.
A che punto siamo con i combustibili fossili?
I dati dell’ultimo Production Gap Report del 2021 non sono in alcun modo rassicuranti. Secondo la task force di esperti c’è un’inquietante discrepanza tra l’attuale comportamento degli Stati e l’ideale posizionamento che dovrebbero avere per rimanere in linea con gli Accordi di Parigi del 2015.
Stando alle premesse attuali, la produzione di carbone nel 2030 sarà del 240% superiore alla quantità compatibile con lo scenario dei 1.5°C. Lo stesso vale per il gas e il petrolio, rispettivamente al 71% e 57% sopra le rispettive soglie. Anche se dovessimo puntare meno in alto, ridimensionando l’obiettivo a 2°C, comunque supereremo del 120% la produzione del carbone (Production Gap Report 2021).
Fonte: Production Gap Report 2021
Infine, al di là delle parole, contano i fatti. Dall’inizio della pandemia i governi del G20 hanno stanziato 300 miliardi di dollari per i combustibili fossili, una somma ben maggiore a quella dedicata alle fonti rinnovabili. Più in generale, ogni anno il finanziamento destinato ai combustibili fossili ammonta in media a 423 miliardi di dollari. Secondo l’UNDP, lo stesso importo permetterebbe di coprire il costo globale delle vaccinazioni COVID-19 e supererebbe tre volte l’ammontare annuale necessario per porre fine alla povertà estrema nel mondo (UNEP, 2021).
Le emissioni indirette.
Tra i Paesi che contribuiscono maggiormente alle emissioni globali vi sono la Cina, con più di 10 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno, seguita dagli Stati Uniti con 4.71, l’India con 2.44 e la Russia con 1.58 (Our World in Data 2020). A parte la Germania con 644 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, il resto dell’Europa sembrerebbe essere abbastanza virtuoso, anche se il dato prende tutta un’altra sfumatura se confrontato a quello delle rispettive emissioni pro capite.
Inoltre, il conteggio delle emissioni per ogni Stato non tiene conto del peso delle emissioni indirette. Seppur apparentemente negli ultimi decenni le emissioni siano diminuite nel perimetro dei confini nazionali, in realtà sono state in una certa percentuale semplicemente rilocalizzate all’estero. Tra il 1990 e il 2014, le emissioni nazionali del Regno Unito sono diminuite del 27%. Tuttavia, più della metà di quella riduzione è compensata dalle emissioni importate da altri Paesi (CarbonBrief 2018). In totale, secondo un report del 2010, le emissioni di gas serra europee importate sono in media tra il 20% e il 50% in più rispetto a quelle ufficialmente conteggiate (Davis, Caldeira, 2010). Questo significa che una buona parte delle emissioni prodotte nelle potenze emergenti, Cina in particolare, sono dovute alla produzione di beni per alimentare le esigenze di consumo dei Paesi occidentali.
Fonte: Our World in Data
La rilocalizzazione delle emissioni in ragione di politiche climatiche più accomodanti contribuisce in maniera diretta al carbon leakage.
Vi sono anche modalità più indirette, per esempio la riduzione del consumo di combustibili fossili e il conseguente abbassamento del prezzo medio come risultato delle politiche climatiche europee potrebbe incoraggiare un aumento della domanda nei Paesi dove tali politiche non sono avviate, con la nefasta conseguenza di un aumento del consumo che vanificherebbe parzialmente la riduzione nell’UE (Due Gradi, 2020).
In uno scenario di mitigazione climatica UE ambiziosa, il carbon leakage è stato stimato di 61% nel 2050, il che significa che per ogni tonnellata di CO2 ridotta nei confini dell'UE assisteremo ad un aumento delle emissioni nel resto del mondo di circa 0,61 tonnellate di CO2, per cui l’effetto globale di riduzione delle emissioni ne risulterebbe molto più limitato. Si fa urgente la necessità che politiche ambientali più rigide siano applicate anche in Paesi come Cina e India dove le emissioni sono ancora altissime. Si tratta però di un’operazione molto delicata: ora che finalmente i Paesi del Sud globale hanno intrapreso la strada per lo sviluppo tanto agognato, ecco che l’ultimatum occidentale di chi ha prodotto senza alcun rimorso piomba come una spada di Damocle sulle potenze emergenti.
Per quanto la Cina sia la nazione responsabile delle maggiori emissioni annue, bisogna considerare che la sua quota di emissioni pro-capite è in realtà la metà di quella degli Stati Uniti (7 tonnellate di carbonio per ogni cittadino, contro 14 tonnellate degli Stati Uniti) e che il suo impatto come potenza inquinante è relativamente recente. Considerando in termini assoluti infatti, gli Stati Uniti sono responsabili di 416 miliardi di tonnellate di CO2, contro i 235 miliardi della Cina.
Lo stesso discorso vale per l’India, le cui emissioni pro capite sono di 1.77 e le emissioni totali 54 miliardi di tonnellate (Our World in data 2020).
Il colonialismo fossile
Oltre al tema delle emissioni importate, c’è un altro tasto dolente su cui è necessario ritornare, ovvero il CO2lonialismo del Nord globale sul Sud globale. Il progresso e la crescita nei Paesi industrializzati è in parte il risultato di un processo neocoloniale di controllo economico dei Paesi del Sud globale, erede del colonialismo imperialista. Per secoli, i Paesi in via di sviluppo sono stati sfruttati per la loro manodopera a basso costo e le risorse naturali presenti nei loro territori.
A questo proposito è stato coniato il termine CO2lonialismo per definire il colonialismo fossile, ovvero lo sfruttamento dei combustibili fossili nel Sud globale da parte delle società del Nord, attraverso attività che danneggiano il clima e l’ambiente e perpetuano il modello estrattivo coloniale (Ecologues, 2021).
Come se non bastasse, per anni le compagnie petrolifere hanno annacquato l’impatto delle loro emissioni con progetti di sviluppo sostenibile di dubbia efficacia, al solo scopo di salvare le apparenze e guadagnare crediti carbonio attraverso il Clean Development Mechanism (adesso trasformato in Sustainable Development Mechanism).
Secondo il dossier della Commissione Ue pubblicato nel 2016 sul tema, per l’85% dei progetti analizzati la probabilità che le riduzioni fossero davvero addizionali e non sovrastimate era molto bassa (Il Fatto Quotidiano, 2021).
In questa cornice, quei tanto discussi 100 miliardi di dollari per finanziare la transizione nei paesi in via di sviluppo appaiono come una goccia nel mare delle responsabilità che l’Occidente dai tempi del colonialismo non è stato in grado di assumersi.
Uno dei casi più drammatici è Cabo Delgado in Mozambico. La regione, ricca di gas naturale, è afflitta negli ultimi anni da un’estrema militarizzazione, attacchi terroristici e disastri climatici che hanno costretto le comunità autoctone a lasciare le loro terre.
Dall’ottobre 2017, riporta Recommon, gli attacchi terroristici hanno causato almeno 2.193 vittime e costretto 355mila persone a fuggire. Secondo Gastivists, le compagnie di assicurazione, le aziende e le banche europee sono i principali responsabili del marasma politico attuale del paese. Le licenze di sfruttamento sono quasi totalmente in mano a multinazionali straniere, come Eni, Total e ExxonMobil.
A rendere ancora più allucinante la situazione, a fronte del disastro ecologico e sociale, la popolazione locale non beneficerà nemmeno di un maggiore accesso all’energia, perché il 90% del gas liquefatto (LNG) è destinato all’export (ReCommon, 2020).
Similmente, gli attivisti africani sono alle prese con un maxi progetto inquinante dal lago Albert in Uganda sino a Tanga in Tanzania, tra le opere infrastrutturali più grandi mai progettate in Africa. Si tratta dell’oleodotto Eacop (East African Crude Oil Pipeline), un colosso di 1.443 chilometri le cui conseguenze ambientali saranno devastanti, in particolare per le cascate Murchison che si trovano nei pressi dei giacimenti e per tutta la regione del lago Albert (The Guardian, 2021).
I giacimenti di riferimento sono due, uno in mano alla compagnia petrolifera cinese China National Offshore Oil Corporation, l’altro in capo alla compagnia francese Total Energie (Nigrizia, 2021).
Fonte: Environmental Justice Atlas
In conclusione, il quadro globale delle emissioni è molto più complesso di come appare in un primo momento. Riassumendo, i Paesi industrializzati hanno una responsabilità storica nell’ammontare delle emissioni che non deve essere dimenticata.
Ancora oggi una parte non insignificante della produzione delle potenze emergenti è impegnata a soddisfare il bisogno di consumo del Nord globale, e le risorse dei Paesi in via di sviluppo sono controllate in buona parte da compagnie occidentali.
Per contrastare efficacemente la crisi climatica sarà necessario adottare una visione olistica e globale, capace di andare oltre la logica dei singoli stati. In molti casi, i terreni su cui si giocano le grandi partite per la salvaguardia del clima sono fuori dai confini nazionali, dove gli effetti nefasti sfuggono agli occhi dell’opinione pubblica.
La ‘compensazione’ delle emissioni attraverso progetti greenwashing nei Paesi in via di sviluppo non cancellerà anni di inquinamento e sfruttamento gratuito. Il Nord globale non solo dovrà caricarsi di una maggiore riduzione delle emissioni, ma anche di finanziare una transizione equa e sostenibile nel Sud globale, dove milioni di persone vivono ancora sotto la soglia di povertà. Perché questo sia possibile va da sè che insieme al risarcimento economico bisognerà eliminare una volta per tutte il colonialismo fossile nonché imporre un limite all’iperconsumo occidentale e dunque alle emissioni, sia quelle all’interno dei confini, sia quelle indirette.
Riferimenti
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