Il presidente francese Valery Giscard d’Estaing, recentemente scomparso, lo chiamava “esorbitante privilegio”. I presidenti succedutisi alla Casa Bianca lo hanno sfruttato più volte come strumento di guerra economica (come dimostrato dall’offensiva di Donald Trump contro la Turchia nell’estate 2019). Gli analisti lo hanno considerato una componente fondamentale di quello che Natalino Irti ha definito “geodiritto”, ovvero lo sfruttamento di regole amministrative o normative a fini geopolitici da parte delle grandi potenze. È uno dei pilastri, silenziosi, dell’ordine internazionale, degli equilibri strategici, dei commerci, di un contesto post-Guerra Fredda sempre meno sostenibile. Il peso geopolitico del dollaro è questo e molto altro, proiezione immateriale e concreta al tempo stesso della potenza a stelle e strisce, assicurazione sulla vita del sistema internazionale ordinato attorno all’egemonia, sempre più traballante, di Washington negli equilibri planetari.
L’egemonia del dollaro è al tempo stesso frutto di un consolidato progetto politico ed equilibrio situazionista. Di fiducia nella credibilità del biglietto verde come fattore di scambio universale e di timore di sfidare l’ira della superpotenza nel caso si decidesse di uscire dall’architettura ordinata attorno al dollaro. Opportunità commerciale, legata alla presenza di un indicatore generale di costo, ricchezza e valore che anche nell’era della moneta fiat assolve alla funzione dell’oro ai tempi del Gold Standard, e rischio, in quanto vincola i Paesi che commerciano in dollari agli umori della superpotenza. Causa della centralizzazione su Washington e New York delle grandi istituzioni finanziarie nate dagli Accordi di Bretton Woods in avanti e conseguenza dell’esportazione su scala globale delle “regole del gioco” made in Usa.
La partita valutaria è la più sottovalutata delle grandi questioni che contribuiscono a determinare l’ordine mondiale. Si parla spesso di sicurezza nazionale, tecnologia, difesa, egemonia culturale. Molto meno, invece, delle conseguenze geopolitiche dell’esistenza di una valuta che non è solo primum inter pares nel sistema dei commerci, ma egemone strutturale. Unità di conto ma anche punto di riferimento culturale: dall’Europa alla Cina, dall’Africa all’Australia si è abituati a equiparare i conti in dollari, a considerare il simbolo del biglietto verde ($) equivalente della ricchezza.
Dal detto comune “domanda da un milione di dollari” alla soglia simbolica del “miliardo di dollari” di patrimonio indicato come punto di riferimento per l’ingresso nel gotha della ricchezza, passando per il deposito di Zio Paperone, è anche in queste sottili manifestazioni culturali o “pop” che si inseriscono i semi dell’egemonia culturale, corollario della primazia politica.
Il sistema di economia internazionale oggi ha sostanzialmente tre punti di riferimento inscalfibili, che fanno riferimento a altrettante situazioni di fatto costituite su iniziativa di Washington: l’ordinamento normativo è costituito dall’estensione planetaria delle istituzioni di libero scambio che hanno avuto nella nascita della World Trade Organization del 1995 il loro compimento; quello strategico-militare dal controllo di Washington sui mari e sui colli di bottiglia oceanici e non (dallo stretto di Hormuz al canale di Panama) in cui passano i traffici commerciali, garantiti e concessi dalla proiezione globale della Us Navy; quello economico-finanziario dal citato peso globale del dollaro, unica valuta del pianeta a esercitare un ruolo così eminentemente politico.
L’architettura della globalizzazione contemporanea è così spiegata. E anche il principale sfidante di Washington al ruolo di “numero uno”, la Cina, in larga misura ha accettato di giocare a queste regole. Come ricordato da Jacopo Magurno su queste colonne, i dati sui flussi finanziari globali certificano il peso decisivo del dollaro:
“Per come è attualmente disegnato, il sistema finanziario internazionale ha bisogno di una certa quantità di moneta di una specifica nazione, il dollaro USA, per funzionare senza attriti. Dati del Fondo monetario internazionale (Fmi) ci dicono che, alla fine del quarto trimestre del 2019, il 61% delle riserve in valuta estera a livello mondiale era denominata in dollari (per un valore di circa 12mila miliardi di dollari USA). Secondo l’ultima survey disponibile della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), in un mercato valutario (FX Market) che ad Aprile 2019 aveva raggiunto il volume di 6,6 triliardi di scambi al giorno, il dollaro USA è risultato essere una delle due divise scambiate nell’88% dei casi.”
Questo crea risvolti geopolitici tutt’altro che secondari. Il Dipartimento di Giustizia Usa ha più volte sfruttato la diffusione globale del dollaro per proclamare la possibilità di estendere la sua giurisdizione su scala planetaria, sfruttando la teoria secondo cui ovunque il biglietto verde sia utilizzato subentri per gli utenti l’obbligo di conformarsi alla legislazione a stelle e strisce. L’arresto della figlia del fondatore di Huawei in Canada, legata proprio a una problematica di “geodiritto”, che ha dato fuoco alle polveri della guerra tecnologica Cina-Usa ne è un esempio.
Al contempo gli Stati Uniti sono depositari del potere di escludere un Paese dai circuiti finanziari internazionali bloccandogli l’accesso al sistema interbancario globale Swift, che nel dollaro ha il punto di riferimento, come accaduto nel 2018 con l’Iran. L’arma delle sanzioni ha conosciuto un utilizzo crescente da parte delle amministrazioni Obama e Trump e il caso dell’offensiva economica contro la Russia iniziata nel 2014 ne è un esempio, tanto che perfino la Germania di Angela Merkel ne ha subito i contraccolpi con l’assalto Usa al consorzio per la realizzazione del gasdotto Nord Stream 2.
Ciononostante, l’egemonia del dollaro fa si che sia costantemente in atto una corsa delle maggiori economie globali a accaparrarsi dollari tesaurizzando titoli di debito statunitensi. Circa 10-12.000 miliardi di dollari di risparmio estero di Cina, Giappone ed Europa contribuiscono al sostegno degli asset finanziari americani (equity e bond), sottraendo risorse alla crescita interna o agli investimenti su scala nazionale e continentale per alimentare la fiducia e il mantenimento della stabilità di un sistema centrato su Washington.
È per questo che, per citare Nouriel Roubini, quando l’America starnutisce il mondo intero prende il raffreddore, ovvero le problematiche economiche degli Usa si ripercuotono a cascata sull’intero sistema globale. Ed è per questo che le principali crisi economiche globali originano da storture e asimmetrie nel contesto statunitense.
Negli ultimi anni uno dei problemi che sta maggiormente emergendo è l’ampia asimmetria tra il valore dell’economia reale di Washington e il peso delle attività finanziarie scambiate sul territorio statunitense. Come sottolinea Milano Finanza, “il livello raggiunto dallo stock di asset finanziari detenuti dagli investitori e circolanti nell’economia americana a fine 2019 era pari a 5,6 volte il Pil Usa, ma in considerazione del recente aumento del debito interno per fronteggiare la crisi economica, dovrebbe essere salito a ben oltre 6 volte il PIL (in UE tale livello è inferiore a 3 volte)”: 100mila miliardi di dollari!
La finanziarizzazione delle economie, la dipendenza delle borse dal denaro facile del quantitative easing, rivelatosi poco funzionale a stimolare autonomamente crescita e occupazione, la volontà degli altri Paesi di assicurare i loro denari sfruttando la possibilità di acquistare titoli Treasury a rischio nullo di fallimento creano un circolo vizioso in cui la risposta alla pandemia, senza un deciso stimolo destinato all’economia reale, rischia di rimanere impantanata. Questo perché gli Usa si confermano il vero e proprio front-runner, nel bene e nel male, della corsa dell’economia globale. Perché il dollaro è centrale e punto di riferimento.
Esistono alternative a questo sistema che, come ha recentemente notato anche il presidente francese Emmanuel Macron intervistato da Le Grand Continent, fa sì che nessun Paese possa giocare al ritmo degli Usa nella competizione finanziaria globale?
La Cina, col suo yuan, è da poco entrata nel paniere del Fondo Monetario Internazionale. Ed è decisa a conquistare quote di influenza in Africa, America Latina e Asia indo-pacifica sul profilo monetario, a entrare nei mercati energetici e a promuovere lo yuan come valuta della “Nuova Via della Seta“. Ma il contesto odierno, come detto in precedenza, parla anche di Pechino come di un attore che continua a giocare secondo le regole della globalizzazione plasmata da Washington ambendo a una leadership economica e non geopolitica. Secondo Morgan Stanley, in ogni caso, lo yuan potrebbe raggiungere il 5-10% delle attività di riserva globali entro il 2030: non abbastanza per portare una sfida totale al ruolo del dollaro.
Sulla carta sarebbe diverso il discorso per un’altra valuta, l’euro. Esso, col 28% delle attività di riserva al mondo è ben piazzato specie, fa notare Carlo Pelanda su Italia Oggi, in un contesto in cui il perimetro del biglietto verde rischia sul lungo periodo di venire intaccato “dalla frammentazione in blocchi regionali/mega-nazionali del sistema mondiale”, la cui accelerazione “ridurrebbe la scala della Pax Americana, trasformando l’America da impero mondiale in regno locale, con l’ovvia conseguenza di rimpicciolire il raggio di riferimento del dollaro”.
Di questi blocchi l’Unione Europea sarebbe, come volume economico, uno dei maggiori e sarebbe garantito dalla presenza di una potenza atomica, la Francia (e le potenze atomiche hanno un’assicurazione sulla vita contro qualsiasi default) e della più grande potenza commerciale e industriale dopo la Cina, la Germania, oltre che della capacità di emettere obbligazioni e titoli con rating pregiato rispetto alle altre aree del globo.
Questo sulla carta. La prassi stessa con cui l’euro ha preso vita, quella di essere una moneta senza Stato e senza politica, ne dimidia le possibilità. Pur rappresentando una valuta capace di coprire gli scambi del più ampio mercato unico al mondo, all’euro manca la capacità geopolitica di agire. Quando nel 2000, interessato dall’entrata in vigore dell’euro, l’Iraq di Saddam Hussein pensò di utilizzarlo per quotare il suo petrolio sui mercati internazionali, Bruxelles non seppe porre in essere alcuna azione a riguardo.
Al tempo stesso, in diverse situazioni di crisi internazionale, comprese le diverse riguardanti sanzioni applicate dagli Stati Uniti, i Paesi europei sono sempre andati al traino del biglietto verde. La quota dell’euro nei Paesi “ancorati” a valute terze riguarda, principalmente, i Paesi africani legati al Franco Cfa/Eco, dunque espressione di una strategia francese e non paneuropea. Dal Libano all’Ecuador, invece, i Paesi vincolati o giocoforza spinti ad ancorarsi al dollaro non si contano e sono per questo motivo condizionati dalle dinamiche globali che hanno epicentro a Washington.
L’euro si trova nella kafkiana situazione di essere una moneta ambita al di fuori dei suoi confini di validità ma strutturalmente in crisi sul versante interno. Segno dell’incongruenza di una moneta senza strategia politica alle spalle, come dimostrato da diverse situazioni di crisi internazionali (da quella irachena di inizio millennio al caso delle sanzioni alla Russia) i Paesi europei sono sempre andati al traino del biglietto verde sul campo economico-finanziario.
Anche nei periodi in cui assistiamo al suo rafforzamento relativo sul biglietto verde, per via della diversificazione attuata su scala globale dagli operatori, questo non si ripercuote in un guadagno in termini di autonomia strategica da parte dei Paesi europei. Re dollaro è ancora sul trono.
[…] beni di consumo, tecnologie critiche) sono in larga misura prezzati col biglietto verde, salvo quote residuali in euro e yuan, per fare pressione sugli alleati per applicare le direttive […]