Quella nazione è progredita sotto la guida di uomini che erano sicuri di sé, per non dire arroganti. Erano persuasi che le loro regole economiche fossero immutabili, che la loro teoria politica fosse giusta, che il loro commercio fosse benefico, che i loro parlamenti fossero popolari, che la loro stampa fosse illuminata, che la loro scienza fosse umana. Sulla base di questa certezza, hanno convinto il popolo […] a permettere che i ricchi fossero ancora più ricchi e meno numerosi, ed i poveri ancora più poveri e più numerosi.
Sembra di leggere l’accusa ad una qualunque delle moderne classi dirigenti europee, ed invece questa è l’impietosa disamina che fa della sua nazione un intellettuale inglese d’inizio Novecento, ma la citazione è fuorviante rispetto a quelle che furono la sua vita e la sua indole, la sua opera e la sua azione. L’autore in questione è Gilbert Keith Chesterton, e non fu un pessimista cosmico, anzi un uomo da cui traboccava la gioia per la vita e per l’uomo (Borges scrisse che la lettura di nessun autore gli regalò tanta felicità come la sua). Non fu un comunista né un anarchico ma fu un inglese cattolico, tradizionalista e nostalgico dell’Inghilterra preindustriale, agricola e pastorale. Non combatté la sua battaglia con la forza delle armi e delle rappresaglie ma con quella della parola e del buonsenso (o, per citarlo, della “ragionevolezza”).
Oggi Chesterton è un autore misconosciuto, e quando si parla di lui lo si fa solo nella veste di scrittore di gialli (sua la famosa saga di Padre Brown, una sorta di Don Camillo inglese - ed infatti a volte leggendolo sembra di leggere Guareschi: la stessa prosa immediata, lo stesso sottile umorismo, la stessa inflessibilità morale, la stessa simpatia istintiva per la genuinità dell’”uomo della strada”) o in quella di critico letterario-scrisse opere su Blake e Conrad, Shakespeare e Wilde. Al massimo, si ricorda la sua crisi esistenziale da cui provenne l’addio tanto all’ateismo quanto alla chiesa anglicana, che lo portò alla conversione al cattolicesimo e all’allineamento con la Chiesa romana. Una volta Marcello Veneziani in un articolo lo definì “catto-umorista”, poiché Chesterton come Guareschi parlava di Fede e di Verità non al modo ieratico e serioso del catechismo istituzionale, ma con aforismi e paradossi, aneddoti e battute ad effetto.
La sua battaglia contro il nichilismo e la disillusione non passò dallo spiritualismo ma dalla spiritosaggine, la sua Fede non era lontana dalla realtà, nell’ascesi o nel distacco, ma era nella gente comune; era una Fede terrena e radicata, quotidiana e sanguigna. Ma, accanto a questa parte dell’opera di Chesterton, che pure è importante, è come disconosciuta un’altra grande eredità di quest’autore, quella meno innocua politicamente e forse proprio per questo fatta passare sotto silenzio: e cioè la formulazione della teoria economica del distributismo.
Molti minimizzano l’importanza di questa teoria, ma Chesterton le attribuiva invece enorme peso, fu la sua ultima grande impresa, che lo assorbì in modo sempre più radicale via via che si avvicinava alla morte. La considerazione da cui parte Chesterton è che il capitalismo ed il comunismo hanno costruito due mondi egualmente “disumani”, proprio nel senso che si fondano su un’economia industriale che porta ad una sempre più massiccia automatizzazione.
In entrambi i casi pochi detentori del Capitale – la nomenklatura in Urss, le grandi imprese multinazionali in Occidente – diventano padroni di una maggioranza sempre più larga di nullatenenti, il cui lavoro è peraltro sempre più marginale ed accessorio. Chesterton qui sembra intravedere in modo visionario il tema della sempre più trasversale delega del lavoro umano alle macchine, con l’assottigliamento conseguente dei posti di lavoro e l’aumento verticale dei disoccupati.
Questo tema sarà ancora attuale alla fine del secolo, quando Jeremy Rifkin gli dedicherà il suo celebre saggio sulla Fine del Lavoro, ma lo è ancora oggi purtroppo. Qui Chesterton non imbocca la strada di Rifkin che, volendo diminuire la disoccupazione rimanendo all’interno del paradigma tecnologico, propose la diminuzione delle ore lavorative in modo tale che il (poco) lavoro umano superstite sia distribuito tra più persone.
Il ragionamento di Chesterton è più radicale, ma forse anche più realistico. Osserva che l’automatizzazione avviene solo con le aziende enormi, che sono riuscite ad inglobare via via sempre più aziende minori, istituendo dei monopoli di fatto, eludendo ogni meccanismo anti-trust. Pertanto, dice Chesterton, basterebbe fare in modo che la proprietà – il capitale – fosse il più possibile distribuito, disincentivando quei meccanismi, economici ma anche culturali, che facilitano la sua concentrazione in poche mani.
La verità è che non esiste nessuna tendenza economica verso la scomparsa della piccola proprietà, finché questa non smette di funzionare come una proprietà. Se un uomo ha cento acri e un altro ne possiede mezzo, è abbastanza probabile che quest’ultimo non riuscirà a vivere del suo mezzo acro. A quel punto si avrà una tendenza economica per cui egli venderà la sua terra e farà così dell’altro uomo l’orgoglioso proprietario di cento acri e mezzo. Ma se un uomo ha trenta acri ed un altro ne possiede quaranta, non esiste alcuna tendenza economica per cui il primo debba vendere al secondo. È semplicemente falso affermare che il primo non può essere felice con trenta ed il secondo con quaranta.
Le motivazioni che spingono all’accumulo di capitale oltre la quantità che consente una vita mediamente agiata sono, per Chesterton, non già economiche ma culturali e psicologiche.
Nell’atmosfera del capitalismo l’uomo che unisce campo a campo è adulato; ma in quella della piccola proprietà è subito schernito o forse lapidato.
Ed ecco qui il punto chiave in cui Chesterton si separa da Marx e da tutto il riformismo sociale precedente: il diritto alla proprietà non va demonizzato o abolito ma esaltato, perché è solo quando la proprietà è diffusa che ciascuno è autonomo e dunque libero, chi non ha proprietà sarà costretto a svendere se stesso e la sua forza lavoro.
La proprietà è un punto d’onore. L’esatto contrario del termine proprietà è il termine “prostituzione”
Forse la teoria di Chesterton è espressa in modo un po’ rudimentale, non conosce la precisione matematica di certe teorie accademiche (che peraltro non sono sempre confermate dalla realtà…). Ma ancora oggi quella di Chesterton appare un’intuizione decisiva: contro l’egemonia dei grandi oligopoli e la meccanizzazione del lavoro, che lascia all’emarginazione masse di nullatenenti, di fronte alla vittoria totale del Capitale sul Lavoro, la soluzione sembra davvero tornare ad esaltare il lavoro inteso come mestiere, la piccola impresa, che non conosce derive meccaniche ma sperimenta un lavoro a cui venga restituita tutta la sua umanità. Nella piccola proprietà il lavoratore autonomo conosce il futuro e la poesia del suo lavoro avendo a che fare ogni giorno con la concretezza della realtà. Perché, secondo la felice formula di Chesterton:
Un poeta è sempre un profeta, ed un profeta è sempre un uomo pratico
Articolo pubblicato originariamente su L'Intellettuale Dissidente il 4 febbraio 2016.
[…] sicuramente ispirato nel suo sviluppo dall’ideologia “distributivista” (che ha avuto in Gilbert Keith Chesterton un grande alfiere) e sull’esaltazione della categoria dei “produttori” propria anche del […]