L’articolo 41 della Costituzione afferma l’inequivocabile libertà di iniziativa economica privata, salvo poi specificare che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”. Una clausola molto generale, dai contorni tristemente anacronistici considerati gli sviluppi neoliberisti europei degli ultimi decenni. Chi però ha a cuore la Carta del '48, non può rassegnarsi al ritorno di una concezione “sacrale” della proprietà privata e ha il dovere intellettuale di metterla in discussione nei casi opportuni: i social network meritano di entrare a pieno titolo in questa riflessione.
Nonostante la loro costante presenza nelle nostre vite (probabilmente avrete acceduto a questo stesso articolo tramite un social), raramente ci fermiamo a pensare al grado di potere che essi hanno acquisito. La cronaca è ricca di esempi emblematici trattati superficialmente dai media: la “spunta blu” di Instagram tolta a Maduro e assegnata a Guaidò in Venezuela o i post censurati del Presidente degli USA Trump. Indipendentemente da come la si pensi sui personaggi citati, non si può ignorare la problematicità di tali interferenze nella sfera politica, dove i social ormai rappresentano la principale modalità di interfacciarsi con il corpo elettorale. Ieri era Trump, ma domani potrebbe essere un soggetto politico inviso a Facebook, magari che domanda un aumento della pressione fiscale sui giganti del web.
Dobbiamo necessariamente accrescere la consapevolezza del fatto che i social sono delle infrastrutture strategiche per la comunità nazionale, sono delle reti: come la rete ferroviaria e autostradale connettono il Paese, egualmente fanno Facebook, Instagram, Twitter e Whatsapp in via digitale. Proprio come le reti tradizionali, i social operano in regime di pesante monopolio.
Basti pensare che tre dei quattro soggetti prima citati appartengono allo stesso gruppo (Instagram e Whatsapp fanno parte di Facebook Inc.). Chiunque abbia seguito un corso universitario di microeconomia sa che la principale caratteristica del monopolista è quello di essere price-maker: a differenza del comune regime concorrenziale ove l’impresa non può influenzare il prezzo determinato dal mercato (price-taker), il monopolista può fissare un prezzo a piacimento, saranno poi gli acquirenti in base alla loro personale curva di domanda a determinare la quantità da acquistare. Nel caso specifico, il prezzo è chiaramente implicito ed è rappresentato dalla posizione privilegiata che i social hanno acquisito, nonché dalla possibilità di sfruttare i nostri dati personali (come vedremo più avanti). La nostra curva di domanda invece è chiaramente rigida: non importa quanto possano alzare il “prezzo”, non saremo mai in grado di vivere senza social.
Quest’ultima riflessione sulle forme di mercato potrebbe non essere condivisa da molti, d’altronde Friedman e discepoli non si sono mai particolarmente interessati ai monopoli privati, bersagliando solitamente quelli pubblici al loro post.
Ciò che invece dovrebbe allarmare tutti gli osservatori è il business model di Facebook e affini, che porta con sé, oltre a seri dubbi di natura etica, possibili effetti distorsivi del mercato. Il gruppo Facebook (ma il ragionamento si estende ad altri giganti come Amazon) è regolatore, amministratore e giudice della principale “piazza virtuale” globale, ove si interfacciano quotidianamente 2,4 miliardi di utenze (5), tra cui un cospicuo numero di persone giuridiche.
Aziende e attività commerciali, piccole, medie e grandi, utilizzano i social come mezzo di comunicazione con i consumatori, sia per raccogliere le istanze dei clienti già acquisiti, sia per cercarne di nuovi tramite la pubblicità. Gli introiti per il gruppo Facebook derivanti dalla vendita di “spazi pubblicitari virtuali” sono stati pari a 69.6 miliardi di Dollari nel 2019, una cifra colossale, da imputare al servizio pubblicitario “ad personam” che solo il gruppo di Zuckerberg è in grado di offrire.
Quest’ultimo dispone di enormi quantità di dati su ciascuno degli utenti, sintetizzati grazie alla registrazione di una dettagliata cronologia di qualsiasi loro azione sulla piattaforma, grazie ai quali è in grado di proporre alle imprese delle campagne promozionali di elevata efficacia, poiché personalizzate per ogni singolo individuo in base alle sue preferenze.
Lasciate da parte le implicazioni morali legate al fatto che Facebook dopo anni di osservazione è in grado di inquadrare la nostra personalità meglio dei nostri parenti o amici, non si può non cogliere la pericolosità di questo modello per le dinamiche di mercato. Facebook Inc. è una società privata e come tale opera secondo logiche di profitto; le decine di acquisizioni condotte negli ultimi anni hanno esteso la sua area di competenza ben oltre i confini dei social network, portandola ad operare in settori come quello dei visori VR o dei pagamenti elettronici istantanei. Queste società godono di un evidente vantaggio competitivo sulle rivali settoriali: potrebbero sfruttare i big data accumulati dall’azienda madre, avere accesso a maggiori spazi pubblicitari e ostacolare le concorrenti. Facebook è un operatore di mercato e come tale non può essere un giudice neutrale della sua “piazza virtuale”.
In virtù di tutte le criticità fin qui evidenziate, un momento di riflessione collettiva sul potere accumulato dai social network non è più rimandabile. Le possibili soluzioni sono varie, ben più incisive del debole “regolamento generale sulla protezione dei dati” approvato dalla UE nel 2016. C’è chi come Jeremy Corbyn, ex leader dei laburisti inglesi, propone di creare un social network alternativo e pubblico. C’è chi, meno drasticamente, teorizza l’istituzione di un’autorità ad hoc a livello europeo che si occupi di vigilare “da vicino” i social network, obbligandoli alla condivisione con le autorità pubbliche dei loro dati e delle loro pratiche. Infine, c’è chi forse ingenuamente parla di espropriazione (come in questo articolo pubblicato su The Conversation). Un’utopia, ma si sa che sono le idee più ardite ad ispirare i grandi cambiamenti.