Tra i concetti che Karl Marx ha consegnato al dibattito politico, quello di alienazione merita di sicuro un posto privilegiato. Il problema dell’alienazione, così come Marx lo ha ricevuto in eredità dal suo maestro degli anni giovanili di studio, Ludwig Feuerbach, rimandava in realtà ad un ambito prettamente religioso: stava ad indicare quel processo di impoverimento spirituale causato dal fatto che gli individui, nel corso della storia, avevano assegnato gli attributi specifici del genere umano, il Gattungswesen, a Dio, non avendo consapevolezza che tali predicati appartengono naturalmente a loro stessi e non ad una divinità trascendente.
Marx si appropria strumentalmente di tale concetto e, combinandolo con le categorie dell’economia politica, trasforma l’alienazione in una potente critica della società capitalistica, togliendola dalle carte della tradizione filosofica e permettendole di prendere vita attraverso le lotte operaie dei decenni successivi. Tuttavia, la questione dell’alienazione pare non intrecciarsi più con le problematiche del lavoro contemporaneo. Non se ne parla più nel dibattito politico, né come strumento di lotta politica, né come fenomeno sociale.
Il concetto di alienazione, così come compare nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, è stato oggetto di disparate interpretazioni. Una di queste, quella umanista, ha avuto particolare fortuna nelle lotte degli anni 60: denunciare l’alienazione dell’operaio della fabbrica fordista significava fare appello ad una natura umana originaria, caratterizzata da una socialità e cooperazione pacificata in cui gli individui potevano dispiegare liberamente le proprie capacità e potenzialità, le quali erano invece represse e soggiogate dai rapporti di dominio all’interno della fabbrica.
Il mondo del lavoro, con l’avvento della società neoliberale-postfordista, ha subito una ristrutturazione profonda e il lavoratore dell’epoca di Internet e della svolta digitale ha assunto caratteristiche che hanno completamente stravolto i tratti tipici delle tute blu: al lavoratore, sia esso impiegato in settori altamente qualificati o “poco qualificati”, viene richiesto di mobilitare le proprie capacità intellettuali, emotive e sociali, coinvolgendo la propria personalità in tutta la sua interezza; si parla perciò di una “soggettivazione del lavoro”.
Di conseguenza le letture umaniste della categoria marxiana di alienazione hanno subito un netto ridimensionamento in quanto la fabbrica post-fordista si riproduce, non sopprimendo, ma incoraggiando al massimo grado le capacità e potenzialità di ciascuno, rendendo disponibili forme di lavoro flessibili e creative, con ampio margine di autonomia individuale, sicuramente distanti dal modello tayloristico di lavoro standardizzato e ripetitivo immortalato dal Chaplin di Tempi moderni. La sfida che il neoliberismo ha lanciato alla teoria marxista e, più in generale, alle teorie eterodosse, è stata quella di aver creato un’organizzazione della produzione tale da permettere agli individui una piena realizzazione nel lavoro e oltre il lavoro.
Ora, non occorre snocciolare elaborati dati statistici per comprendere la situazione di allarme, innanzitutto salariale e contrattuale, del lavoro contemporaneo. Nel contempo, però, è altrettanto evidente che, nonostante la condizione di oggettiva difficoltà per quanto riguarda la “struttura” dei rapporti sociali, non corrispondono sul piano della sovrastruttura, cioè della coscienza politica, spinte conflittuali che abbiano di mira la configurazione attuale del rapporto capitale/lavoro, avanzando pretese di un nuovo modo di organizzare la produzione.
Il vecchio concetto di alienazione, nonostante i limiti di una concezione umanista, aveva avuto il merito di spingere le rivendicazioni politiche innanzitutto sul terreno della produzione, oltre che su quello della redistribuzione: si aspirava a un maggior controllo dei processi di produzione e dei loro fini, ad una maggiore democrazia e cooperazione nei processi decisionali. La scomparsa del concetto di alienazione dal dibattito politico ha coinciso sostanzialmente con l’incapacità di organizzare la lotta politica a partire dalla questione lavorativa.
Occorre allora essere grati a Rahel Jaeggi, docente di filosofia sociale alla Humboldt di Berlino, che ha provato a riattivare la nozione di alienazione, liberandola dalle incrostazioni della tradizione e tentando di riportarla al centro della discussione politica.
I contributi di Rahel Jaeggi al dibattito sono due saggi: Alienazione. Attualità di un problema filosofico e sociale (Castelvecchi, 2017) e Nuovi lavori, nuove alienazioni (Castelvecchi, 2020).
Jaeggi ha messo a tema un aspetto che in realtà era già chiaro a Marx: il lavoro non è un mero fatto economico, né è solo e soltanto una questione, seppur sacrosanta, di rivendicazione salariale e giustizia redistributiva. Il lavoro, che media il nostro rapporto con il mondo e la percezione che abbiamo di esso, rappresenta per l’individuo la modalità privilegiata di affermazione e realizzazione di sé, che passa attraverso il riconoscimento del proprio valore da parte dell’altro: è un’attività vitale e produttiva, dove il termine produzione, sceverato da una determinazione meramente economicistica, costituisce la manifestazione e l’estrinsecazione delle capacità emotive, intellettuali, linguistiche di ciascuno. Per questo, scrive Jaeggi:
“A me sembra che si possa rilevare-per riferirsi a un aspetto più personale-un disperato desiderio di identificazione anche nelle circostanze più difficili. Persino in quello che a prima vista può sembrare il lavoro più insignificante, la gente cerca ancora e (talvolta) trova un certo margine di appropriazione e autodeterminazione” (p.26, 2020)
La critica agli odierni assetti della produzione deve essere allora condotta, oltre che sul piano salariale, anche e soprattutto sul piano della narrazione ideologica neoliberale, che esalta la figura del lavoratore cognitivo “pienamente realizzato”, “imprenditore di sé stesso”, “ricco di creatività”. Il punto di rottura e di tensione è costituito dalla distanza tra questo desiderio di riconoscimento e di aspettative di cui la fabbrica neoliberale carica il lavoro contemporaneo e l’effettiva frustrazione, oltre che sfruttamento, del “lavoro reale”.
Il disinnesco di tale impalcatura ideologica richiede cioè la politicizzazione delle forme di sofferenze sociale che il capitalismo post-fordista reca con sé: la lettura sociologica negli ultimi anni ha attirato l’attenzione sull’impatto che il lavoro “creativo, flessibile e auto-imprenditoriale” provoca sulla vita personale in termini di incertezza e di senso di fallimento; ecco che il gusto per la creatività e l’auto-imprenditorialità si trasforma in nuove forme di disciplinamento, dove i lavoratori sono soggiogati da un culto della performatività il quale in realtà molto spesso mantiene celata la depressione, la “fatica di essere sé stessi”, come uno degli “effetti collaterali” degli odierni assetti di produzione e come nuova malattia del nostro tempo.
Questi effetti collaterali sono chiamati da Jaeggi patologie del lavoro: colpiscono maggiormente chi è impiegato attraverso forme contrattuali precarie e attraverso processi di esternalizzazione dei servizi, coinvolgendo qualsiasi grado di qualifica e specializzazione:
“Laddove nel lavoro industriale classico era una ben definita non-flessibilità che portava alla frammentazione delle mansioni e alla sofferenza del dipendente, i dipendenti di oggi soffrono a ragione per la variabilità delle competenze che vengono richieste alle loro prestazioni e per l’indeterminatezza che ne consegue. Ed è certo che qui l’idea della persona intera e della realizzazione del suo potenziale diventa propriamente un problema.” (p.34)
L’alienazione contemporanea agisce sulla dimensione soggettiva della sofferenza personale legata a determinati tipi di lavoro, in quanto oggettiva conseguenza dell’attuale organizzazione della produzione.
A questo punto, occorre però chiarire quale sia un “buon lavoro”: Jaeggi prende a prestito la definizione di lavoro da parte di Hegel come “condivisione delle risorse (Vermögen) universali della società”. Sfruttando l’ambiguità del tedesco Vermögen, con questa espressione si fa riferimento tanto alle risorse materiali della società quanto a ciò di cui una società è capace in termini di conoscenze e abilità accumulate nel corso della storia, ovvero quelle competenze culturali e scientifiche generali inquadrabili anche nell’espressione marxiana di general intellect. Il “buon lavoro” è quello che consente a ciascuno di partecipare, nello stesso tempo, al sovrappiù prodotto e al sapere nel suo evolversi temporale, al know-how di una società, il quale è il risultato della cooperazione e dello sforzo comune in atto quotidianamente nell’attività produttiva. (Tale sfera sociale cooperativa, si badi, non si è mai arrestata da quando il capitalismo è in vita, persino durante la recente pandemia: il lavoro di cura, di assistenza sanitaria, le consegne di cibo, lo smaltimento dei rifiuti, far funzionare le casse ai superamenti…).
La disoccupazione e il lavoro alienato, precario, intermittente rappresentano diverse modalità di impedire la partecipazione a tali risorse universali.
La questione del lavoro si articola dunque su tre livelli: il diritto al sostentamento, il riconoscimento sociale, nella misura in cui si dà un apporto, singolare e peculiare, alla cooperazione sociale e la partecipazione alle capacità tecniche e culturali che permettono la riproduzione della sfera relazionale.
Ma affinché ciò sia possibile occorre una “democratizzazione del lavoro”, ossia una partecipazione attiva alle decisioni aziendali. Chi lavora infatti deve essere messo nelle condizioni di decidere su cosa lavora e come si lavora.
Questo è anche l’aspetto centrale dell’appello democratizing work, firmato da oltre 3000 accademici e ricercatori di più di 650 università del mondo, il quale ha dato vita ad un global forum che si riunirà a breve.
Un appello fondamentale per chi, nonostante l’inquinamento mediatico del dibattito odierno, crede che sia il lavoro la posta in gioco reale su cui si misura la produzione e riproduzione della vita.
Riferimenti:
R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo nella vita personale, Feltrinelli, Milano, 2001. L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano, 2014
A. Ehrenberg, La fatica di essere sé stessi. Depressione e società, Einaudi, Torino, 2010
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 200. Laterza, Bari, 2004
I. Ferreras, J. Battilana, D. Méda et al., Tre proposte per il lavoro, Il Manifesto, 15/05/2020
Democratizing work, https://democratizingwork.org/global-forum
A. Tassinari, Le esternalizzazioni: l'altro volto dell'austerità, Jacobin Italia, 07/11/2018