di Matteo Nepi*
Per tutto il secolo scorso l’economia non ha cessato di evolversi in direzione di una crescente complessità analitica, che l'ha resa sempre più affine nel metodo alle scienze dure, come la fisica e la biologia, allontanandola dalle altre scienze sociali.
Questa trasformazione è stata interpretata dal mondo accademico come un progresso verso un maggiore rigore che garantisce l’obiettività e la neutralità della disciplina, ponendola al riparo dalle faziosità ideologiche e dal relativismo culturale.
Ciò non significa ovviamente che le conclusioni degli studiosi di economia abbiano cessato di esercitare un effetto sulla politica: tutti sappiamo bene che le idee di un economista possono orientare l’attività dei governi mondiali per anni e anni, come è avvenuto prima con John Maynard Keynes e poi con Milton Friedman. Anzi, l’influenza di questo genere di esperti sulla politica e sui partiti è andata crescendo, diventando ormai un elemento imprescindibile del loro funzionamento. La presunta neutralità scientifica della disciplina la pone infatti in una posizione privilegiata dalla quale il suo realismo pragmatico si contrappone nell’immaginario collettivo all’ingenuo idealismo o al cieco fanatismo delle teorie politiche e morali. Gli economisti vengono così riconosciuti come esperti super partes indifferenti alle ideologie, scienziati e non utopisti.
Questa situazione, però, è relativamente nuova: prima della nascita della cosiddetta economia “classica” nessuno avrebbe mai immaginato di poter separare le decisioni economiche da quelle politiche, allo stesso modo in cui non si sarebbero potuti separare i mezzi dai fini. Tuttavia, data l’ampia eterogeneità di metodi, finalità e scopi che sussiste fra i pensatori di questo periodo, compreso fra la metà del XVIII secolo e la fine del XIX secolo, non è facile spiegare chiaramente cosa renda speciale questa stagione teorica rispetto a quelle precedenti.
Esistono, infatti, trattati e relazioni su argomenti di carattere economico già in epoche precedenti: si pensi per esempio alla teoria mercantilistica o alla scuola fisiocratica di Quesnay. Se si considerano le osservazioni di Aristotele sul commercio nell'Etica Nicomachea e nella Politica allora di economia si parla già dall’antica Grecia, ma l’“economico” come categoria non era ancora pensato come qualcosa di autonomo e indipendente. Nei mercantilisti, ad esempio, l’obiettivo delle analisi economiche era sempre di carattere politico. Come scrive Louis Dumont:
Essi considerano i fenomeni economici dal punto di vista della politica. In loro il fine più sovente perseguito è la prosperità e il potere dello Stato, e l’”economia politica” compare in questo periodo come espressione designante lo studio di mezzi particolari, di mezzi “economici” in vista di questo fine, essa cioè appare come un ramo particolare della politica (1).
L’idea che l’economia dovesse essere una parte subordinata della politica dipendeva dall’idea antichissima e diffusa che, nel commercio, al vantaggio di una delle parti dovesse corrispondere necessariamente una perdita per la controparte e che quindi il compito dello stato fosse quello di compensare quanto possibile le ingiustizie. Con Adam Smith, al quale non a caso si fa risalire la nascita del pensiero classico, si fa strada l’idea rivoluzionaria che uno scambio possa rivelarsi vantaggioso per entrambi i contraenti, con l’implicita conseguenza di rendere l’intervento della politica nelle questioni commerciali praticamente inutile se non addirittura dannoso.
Nella sua opera più importante, la Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), Smith analizza le condizioni che determinano la formazione dei prezzi e introduce la famosa tesi della “mano invisibile”, secondo la quale i mercati sarebbero capaci, date determinate condizioni di equilibrio e funzionamento, di autoregolarsi. Ancora più successo ebbe l’idea contenuta in un’abusata citazione dello stesso testo secondo la quale si serve meglio l’interesse della collettività quando ci si comporta secondo il proprio interesse personale piuttosto che agendo intenzionalmente in modo altruistico:
Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi, mai delle nostre necessità.
Nella Ricchezza delle nazioni si trova quindi un’apologia del libero commercio (free trade), motivata appunto dalla credenza nella capacità dei mercati di auto-armonizzarsi, che caratterizzerà in modo determinante il pensiero economico di epoca classica. Tale rivendicazione di libertà e autonomia evidenzia in modo lampante il contrasto con gli “economisti” anteriori, interessati invece all’economia per scopi essenzialmente politici, e quindi orientati a favorire e consigliare il controllo statale sul mercato (2).
Con il pensiero di Smith diventa quindi possibile conciliare l’idea che gli interessi fra le due parti di una transazione possano essere convergenti, con l’idea, forse più controintuitiva, che l’interesse individuale possa coincidere con l’interesse generale. Vale la pena sottolineare che, senza il postulato dell’armonia naturale dei mercati, questa acrobazia teorica non sarebbe mai riuscita e sarebbe stato molto più difficile legittimare una separazione fra la sfera dell’economico e quella del politico.
Sono proprio queste idee a porre le premesse teoriche per l’affermazione dell’economia come scienza indipendente dalla politica: la presenza di un “ordine naturale” dei fenomeni economici, che avrebbero una loro interna armonia se lasciati funzionare senza interferenze istituzionali, implica di fatto la possibilità per quei fenomeni di essere studiati alla stregua di fenomeni naturali. Se le leggi dell’economia sono simili a quelle della fisica allora deve essere possibile studiarle con lo stesso sguardo obiettivo e neutrale, mettendo così da parte qualsiasi valutazione di carattere politico o morale.
Ciò che è interessante osservare è il fatto che l’ipotesi della capacità auto armonizzante dei mercati è un postulato, e perciò non è né verificabile empiricamente, né si può dedurla logicamente a partire da qualche altra osservazione, e infatti lo stesso Smith la sottoponeva a condizioni particolarissime. Si constata così un incredibile paradosso: una delle ipotesi fondamentali per legittimare un’economia intesa come scienza è essa stessa una ipotesi non scientifica.
Note:
- L. Dumont, Homo aequalis – 1. Genesi e trionfo dell’ideologia economica, Adelphi, Milano, 1984, p. 56.
- In realtà l’opera di Smith contempla e incoraggia anche numerosi casi di intervento pubblico volto a garantire il buon funzionamento del mercato, la cui efficacia è quindi sottoposta a condizioni piuttosto rigide, ma la mole del suo lavoro ha favorito negli anni numerose letture di comodo altamente selettive.
*Matteo Nepi si è laureato in filosofia con una tesi sul pensiero economico del Novecento. Collabora con il teatro e circolo culturale "Corte dei Miracoli" e partecipa all'organizzazione delle iniziative dell'associazione di cultura politica "Sottosopra"
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