Da qualche anno le disuguaglianze sono tornate a essere un tema scottante tanto all’interno del dibattito politico quanto di quello economico. Negli Stati Uniti proposte come la wealth tax di Elizabeth Warren o l’aumento della tassa sulle plusvalenze proposto dall’amministrazione Biden vanno esattamente in questa direzione e rappresentano un chiaro segno di rottura rispetto al passato.
Così anche nell’ambiente più prettamente accademico il dibattito si è riacceso: lo dimostra una raccolta di interventi di recente pubblicazione ("Combating inequality"), curata da economisti del calibro di Rodrik e Blanchard. Lo stesso Rodrik che insieme a Zucman e Saez ha fondato il network Economics for Inclusive Prosperity: un gruppo di accademici che, riconoscendo il pericolo delle crescenti disuguaglianze, pone come obiettivo non soltanto l’allocazione ottimale delle risorse, un punto centrale della teoria economica, ma anche la loro distribuzione.
Questo problema era già stato evidenziato da Samuelson nel suo classico Economics: la teoria economica mainstream - si pensi ad esempio ai teoremi dell’economia del benessere - è più interessata a questioni di allocazione, appunto. Ossia descrive come gli agenti, all’interno di un sistema di prezzi dati, raggiungono un equilibrio paretiano. Un concetto, questo, criticato da Bowles proprio perché non tiene conto della distribuzione e dei suoi effetti sulla società sottostante all’economia e, di conseguenza, sulla crescita economica.
Per anni questa diffidenza nei confronti della distribuzione delle risorse si è trascinata nel dibattito politico ed economico. Gli alfieri del neoliberismo, come Margaret Thatcher, hanno sostenuto che le disuguaglianze non sono un problema quando il livello di prosperità è tale da garantire a tutti elevati standard di vita. Il vero problema, quindi, non sarebbero le disuguaglianze ma la povertà. Un concetto ripreso recentemente dagli alfieri del libero mercato, che sostengono che la ricchezza, poiché può essere creata, non è un gioco a somma zero.
La posizione più radicale, da questo punto di vista, è espressa dall’economista Bob Lucas, tra i padri della macroeconomia neoclassica e della teoria delle aspettative razionali. Nel 2004, egli dichiarò: “Tra le tendenze dannose per una sana economia, la più seducente, e secondo me la più velenosa, è quella di concentrarsi sulle questioni di distribuzione (…) Il potenziale per migliorare la vita dei poveri trovando modi diversi di distribuire la produzione attuale non è niente in confronto al potenziale apparentemente illimitato di aumentare la produzione".
Quando questa ipotesi è stata testata, tuttavia, i risultati non sono stati soddisfacenti. In uno studio dell’IMF Cordoba e Verdier mostrano come i costi della disuguaglianza surclassino i benefici della crescita. Gli effetti negativi delle disuguaglianze sono ormai ben fondati, sia dal punto di vista teorico sia pratico.
Una survey dell’Ocse individua una correlazione tra disuguaglianze e una crescita economica più flebile: si stima che la crescita cumulativa in UK, USA e Italia sarebbe stata tra il 6 e i 9 punti percentuali più alta. E recentemente la stessa Ocse ha invitato il governo israelliano a prendere sul serio il problema: Israele è infatti un’economia trainata dalla tecnologia e quindi dal capitale umano. È proprio questo a essere danneggiato dalle disuguaglianze.
A livello teorico, è fondamentale il lavoro di Tabellini e Persson, così come quello di Acemoglu e Robinson: le disuguaglianze rappresentano il fondamento, de facto, del potere politico e possono generare, quando amplificate, istituzioni estrattive. Queste non puntano a un sistema economico-politico dinamico in grado di stimolare la distruzione creativa, quanto a una massimizzazione del loro controllo sulla società.
Tra i lavori che più di tutti hanno contribuito a stimolare il dibattito vi è sicuramente "Il Capitale nel XXI secolo" del matematico-economista Thomas Piketty. In questo suo lavoro mastodontico che studia l’andamento delle disuguaglianze nei paesi occidentali, Piketty nota che esse hanno seguito un trend discendente fra la II guerra mondiale e gli anni ‘70, per poi tornare a crescere raggiungendo i livelli dei primi del Novecento.
La spiegazione per questo fenomeno avanzata da Piketty si cela dietro la disuguaglianza r>g: il tasso di rendita del capitale (r) è maggiore della crescita economica (g). La rendita frutta di più rispetto ai redditi da lavoro. Questa dinamica, che si era parzialmente invertita nel dopoguerra, è ricomparsa dopo gli anni della crisi petrolifera e l’avvento del neoliberismo nei paesi anglosassoni.
Questa spiegazione, che vede quindi nelle dinamiche capitaliste l’emergere delle disuguaglianze, non tiene però conto di aspetti politici-istituzionali. Anzi, ricade nell’errore di vedere il mercato come un sistema naturale che deve essere snaturato per funzionare. Sul capitalismo si potrebbe infatti aprire una discussione simile a quella che Heidegger apre nell’incipit di Sein Und Zeit sull’essere. Il capitalismo è il sistema più generale ma questo non significa che sia chiaro, anzi: forse è il più oscuro di tutti. Una definizione di capitalismo rischia di essere approssimativa e forse, come l’essere, il concetto di capitalismo è indefinibile. Una posizione più moderata, cioè aristotelica, può passare dall’idea del capitalismo come genere prossimo a cui va aggiunta una differenza specifica.
Questa differenza specifica è appunto il framework istituzionale in cui si inserisce. Se con capitalismo intendiamo un sistema in cui vale la proprietà privata e il sistema dei prezzi, rischiamo appunto di finire in un cortocircuito che ci fa considerare capitalismo tutto ciò che è esistito fino ad oggi. Per questo è necessario rivolgere la nostra attenzione alle dinamiche istituzionali.
Appare evidente se consideriamo il trend delle disuguaglianze nei paesi anglosassoni e in Europa Occidentale. In Europa le disuguaglianze sono state in qualche modo tenute a bada dall’eredità del welfare state costruito nel dopoguerra. Si può dire lo stesso di Israele dove le disuguaglianze non dipendono soltanto dalle politiche di stampo neoliberista portate avanti dai governi della destra ma anche dalla situazione di apartheid nei confronti degli arabi israeliani.
I cambiamenti istituzionali giocano un ruolo fondamentale nel delineare la traiettoria di una nazione. La Grande Peste del ‘300 ci offre una panoramica interessante. L’elevato calo demografico dovuto alla diffusione del virus portò a sconvolgimenti economici dovuti alla mancanza di manodopera. Nacquero movimenti come quello delle jacqueries in Francia e i moti di protesta si diffusero in tutta Europa. Quei Paesi come Francia e Inghilterra che trovarono un accordo tra i possidenti terrieri e il proletariato ne emersero vincitori. Laddove invece la resistenza dei possidenti si fece più aspra, come nei paesi slavi, la situazione non fece che peggiorare.
Ma le istituzioni si appoggiano sugli individui. In questi ultimi anni, come reazione alla modellistica fine a se stessa dell’economia mainstream, ha preso piede il movimento dell’economia cosiddetta "post-autistica". Essa, considerando anche le motivazioni sociologiche dietro al mondo economico, ha fatto affidamento sempre di più sugli effetti della struttura dei network.
Quanto le disuguaglianze siano influenzate dalle reti sociali è emerso con forza durante la pandemia. Prendiamo ad esempio gli effetti della chiusura delle scuole per far fronte alla diffusione del virus e gli effetti sull’apprendimento.
In Olanda a essere più penalizzati dai test standardizzati sono stati proprio gli studenti e le studentesse che provenivano dai quartieri più poveri, ossia quelli che non hanno genitori o vicini con una formazione specifica in grado di aiutarli a svolgere i compiti, che vivono in spazi angusti e in contesti di degrado, spesso anche tecnologico.
Comprendere la natura incorporata e istituzionale delle disuguaglianze porta a conseguenze notevoli sulla politica economica. Se è condivisibile e anzi auspicabile una tassa mondiale sulla ricchezza come quella proposta da Piketty, allo stesso tempo ciò non basta. È necessario intervenire sulle istituzioni, soprattutto quelle riguardanti il mondo del lavoro. Potenziare gli strumenti di pre distribuzione. E ripensare il tessuto delle nostre città, evitando effetti di segregazione che sarebbero nefasti per l’ascensore sociale.
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