La crisi mondiale – sanitaria ed economica – a seguito della pandemia da Covid-19 ha colpito e sta colpendo l’Occidente più di quanto non abbia fatto nel resto del mondo. La vulnerabilità dell’ordine neoliberista e la propria inefficienza rispetto ad altri sistemi economici (primo fra tutti quello cinese) non sono mai stati così evidenti.
Questo non sta però impedendo a una parte consistente delle élites occidentali di avviare un processo di arroccamento, con lo scopo di conservare quello che Carlo Formenti chiama il “controllo imperiale di Stati Uniti ed Europa” sul mondo (pag. 9).
E così un’onda neomaccartista ha preso il sopravvento su “partiti, istituzioni, media, accademici, intellettuali, magistrati”, allo scopo di cristallizzare i rapporti di forza economici e politici. Questo è quanto prova a descrivere il succitato autore nel suo libro, Il capitale vede rosso. Socialismo del XXI secolo e reazione neomaccartista. Viviamo una situazione in cui, nel dibattito pubblico, “parole come nazionalizzazione, ridistribuzione del reddito, welfare, economia mista, politica industriale, sovranità popolare, servizi pubblici, ecc. puzzano di “statalismo”, di attacco alle libertà economiche” (pag. 10).
Eppure, si pensi a questo: dal trionfo mondiale del capitalismo avviatosi con l’inizio degli anni ’80-’90, una serie di cambiamenti sociali, economici, politici, persino antropologici hanno investito le società occidentali. Il neoliberismo ha invaso ogni dimensione della vita privata e collettiva: ha destrutturato l’eccezionale apparato pubblico delle società capitalistiche (prima fra tutte l’Italia) di industria e servizi; ha inibito la capacità delle masse di organizzarsi politicamente in risposta all’accentuarsi delle disuguaglianze e dell’indebolirsi della politica sull’economia; ha assorbito i partiti comunisti e socialisti integrandoli nelle logiche di sistema, relegando la sinistra radicale a una nicchia settaria; ha persino trasformato i rapporti tra gli individui, strutturandoli sul modello dei rapporti con gli oggetti di consumo (Bauman), mercificando ogni relazione umana. Il trionfo del capitalismo consumista e neoliberista sembrerebbe dunque completo.
Ma, nonostante questo, “il capitale vede rosso”, dice Formenti. Perché le crisi ricorrenti generate dal sistema capitalista (non ultima quella che stiamo vivendo) ne minano ormai clamorosamente la stabilità. E a preoccupare le nostre élites sono soprattutto l’ascesa della minaccia comunista cinese, le rivoluzioni nei paesi del Terzo mondo, le rivolte populiste. Tutto ciò fa sì che persino rivendicazioni che un tempo sarebbero state considerate di ordinaria pianificazione keynesiana, oggi risultino anatema, in quanto potrebbero mettere a rischio l’esistenza stessa del neoliberismo e con esso del capitalismo.
Ma, nonostante l’occasione propizia per la costruzione di un fronte anticapitalista, le sinistre tradizionali occidentali si rivelano del tutto incapaci (o persino non intenzionate) a raccogliere la sfida. La svolta antistatalista della sinistra post-sessantottina ha anzi agevolato, alimentato lo strapotere del capitale contro il lavoro. L’idea che la sovranità (ovvero il potere politico, ovvero lo Stato) sia la fonte di ogni male, di ogni autoritarismo indebito, ha permesso al capitale di riprodursi in forme nuove, destrutturando i corpi intermedi e slegando l’economia da qualsiasi vincolo di tipo politico. Le sinistre hanno così finito per preferire l’ordine neoliberista, avversando di conseguenza tutte le rivolte in paesi del Terzo mondo in quanto “liberticide”.
Stando così le cose, mancherebbe, secondo Formenti, un soggetto politico in grado di ricostruire un “blocco sociale” nel più puro senso gramsciano, ovvero di un accordo tra classi sociali in cui prevalga l’egemonia delle classi lavoratrici, allo scopo di costruire una società post-capitalistica.
E serve anche un’analisi critica al fine di ridimensionare i fenomeni populistici, precisando che, se giudicati senza tener conto di categorie fondamentali, come quella di “classe”, si rischia di cadere in sconvenienti equivoci: quello, per esempio, di non saper distinguere tra populismi “progressisti” e “reazionari”. I populismi non sono, infatti, di per sé progressisti, a differenza di quanto si rischierebbe di dedurre dalle analisi di autori come Ernesto Laclau. Per costruire un soggetto politico progressista e capace di cambiare lo stato di cose presenti è necessaria (oltre ad una unificazione del “popolo” sul piano simbolico/discorsivo) una attenta analisi delle contraddizioni di classe generate dal capitalismo. Solo attraverso l’analisi di queste contraddizioni è possibile offrire un’alternativa non solo elettorale, ma anche sistemica alle élites dominanti.
Sempre in agguato è, tra i fenomeni populisti, il rischio di fomentare “rivoluzione passive”: ovvero sommovimenti che, subendo l’egemonia delle classi dominanti, pur contestandole non potrebbero metterne in discussione i presupposti sistemici. È il caso, questo, del Movimento Cinque Stelle, o di Partiti come Podemos, il quale ha ormai consumato la propria svolta “governista”.
Dunque, al momento non si profila un partito in grado di riorganizzare il “blocco sociale”, di unire il fronte sindacale, di unire le classi lavoratrici insieme alle classi medie con chiara egemonia delle prime. E anzi, è stato proprio l’aver privilegiato le “alleanze con il ceto medio e con le sinistre progressiste” a condannare anche le sinistre populiste (si pensi a Podemos e a Mélenchon) al fallimento. Esse hanno sostanzialmente rinunciato “all’ardua impresa organizzativa, ideologica e culturale di ricompattamento delle classi lavoratrici” (pag. 109).
Decenni di propaganda neoliberista hanno reso talmente difficile la ricomposizione della classe lavoratrice da rendere secondario qualsiasi altro obiettivo, tanto delle alleanze quanto, e qui sta a mio giudizio una delle tesi più interessanti e opportune dell’autore, della “rivoluzione a tappe”. Formenti non manca infatti di opporsi a quell’”illusione per cui sarebbe possibile realizzare una rivoluzione “a tappe”, prima andando al governo e poi procedendo a cambiare dall’interno le strutture dello stato, in modo da renderle funzionali” ad una svolta anticapitalista (110).
Si tratterebbe in realtà di una pia illusione. Non solo perché, allo stato attuale, andare al governo non equivale a prendere il potere; ma anche perché, se c’è qualcosa che ci insegnano le esperienze di Bernie Sanders e Jeremy Corbyn, senza un fronte ben organizzato e omogeneo di lotta sociale, con chiara egemonia delle classi lavoratrici, è impossibile sfidare il dominio del capitale. Serve invece la costruzione di un partito ben organizzato, con un “poderoso sforzo di formazione dei quadri”, soprattutto giovani, capaci di opporsi al paradigma neoliberista e che siano avanguardie di un nuovo “socialismo possibile”.
Esponendo queste e altre tesi di innegabile fascino, il testo di Formenti, pur di breve e agevole lettura, rappresenta un importante contributo teorico per chi si riconosca nel progetto marxista di cambiamento del nostro attuale sistema economico.