George Floyd, Minneapolis, Usa. Giulio Regeni, Il Cairo, Egitto. Federico Aldrovandi, Ferrara, Italia. Ma anche tanto altro: gli incidenti di Genova nel 2001, l’esplosione nello stabilimento della ThyssenKrupp di Torino nel 2007, le torture nei campi di detenzione libici (in corso)... Storie diverse e maledette, maledettamente diverse.
L’omicidio di George Floyd mette a tema ciò che è inscritto nel codice genetico della democrazia americana, nel suo fondarsi su un patto sociale profondamente razzista. Ci sarebbe tanto da dire su questo, però, per quanto importante, preferisco porre l’attenzione su altro.
I fatti di Minneapolis hanno risvegliato qualcosa di losco, indicibile. Nonostante le storie sopra menzionate affondino in luoghi e circostanze, personaggi e biografie, completamente differenti, ad una prima analisi ciò che accomuna tutte queste vicende sono gli aguzzini che pronunciano la frase “tu non sei un uomo” mentre, prendiamo il caso di Minneapolis, George Floyd, ormai esanime, esclama “I can’t breathe”. Quell’agente di polizia si fa beffe dell’empatia naturale che, secondo i neurobiologi, sarebbe garantita dai neuroni specchio, i quali si attivano nei momenti in cui proviamo solidarietà o indignazione per la sofferenza di qualcuno.
Ma c’è un altro da aspetto da considerare. Il corpo di George, durante l’esecuzione, è amorfo, trattato e consumato così come le merci che ornano i supermercati e le vetrine dei negozi, la sua storia e biografia sono annullate. Ecco, la domanda fondamentale: questa riduzione della vita al mero fatto biologico di esistere e morire (zoe in greco), spogliata di tutti quei tratti che qualificano la “buona vita” (bios), è legata semplicemente a un fatto di cronaca oppure il corpo senza qualità è invischiato nella stessa produzione e riproduzione della società capitalistica, costituendone la sua condizione di possibilità?
Karl Marx è stato l’unico, nella storia del pensiero economico, a interrogarsi davvero su ciò che contraddistingue storicamente il modo di produzione capitalistico, nella sua particolarità e diversità rispetto a tutti gli altri sistemi sociali precedenti. Non a caso, il sottotitolo della sua opera più celebre, Il capitale, recita: Critica dell’economia politica. Dove il termine “critica” fa riferimento proprio alle condizioni di possibilità a fondamento dell’economia politica.
A differenza degli economisti classici, Marx opera una netta distinzione tra forza-lavoro e lavoro. La forza-lavoro, dice Marx, “è la somma di tutte le attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità”. È pura potenza, dynamis, mera facoltà di produrre: il capitalista è interessato esclusivamente alla forza-lavoro, non già a una o più prestazioni determinate, in atto. Dopo che la compravendita è avvenuta, la forza-lavoro diventa una merce utilizzabile a piacimento, a cui gli economisti neoclassici applicano le loro leggi di domanda e offerta. Il plusvalore corrisponde a tempo di lavoro non remunerato.
Ciò che più interessa al nostro discorso è il fatto che, continua Marx, la forza-lavoro è “inseparabile dall’immediata esistenza corporea dell’operaio”. Ciò che conta, per l’imprenditore, è la forza-lavoro, non il corpo del lavoratore; a differenza della vita dello schiavo, quella del lavoratore non ha alcun pregio. Il capitalista, tuttavia, non trova davanti a sé la forza-lavoro, potenza pura, ma il corpo vivente del lavoratore. Corpo considerato come nuda vita, una vita cioè scarna, mero fatto biologico, ma (qui sta l’arcano) custode e sostrato della capacità produttiva, tabernacolo di ciò che è intangibile, la forza-lavoro, ovvero “la somma delle attitudini fisiche e intellettuali”, quindi facoltà di linguaggio e di pensiero, tonalità emotive, memoria ecc.
Ora le difficoltà: la forza-lavoro di per sé indeterminata, caotica, indecifrabile e quindi non quantificabile, diventa valore di scambio sul mercato del lavoro… Come si fa a calcolare l’imponderabile? Subentra allora il corpo del lavoratore: l’imprenditore per ottenere ciò che davvero desidera, la forza-lavoro, offre al lavoratore un salario, che corrisponde all’insieme dei beni necessari alla sua sopravvivenza. Il corpo, cioè la vita stessa, in quanto misurabile e divisibile in una sequenza di istanti temporali rappresenta il criterio con cui misurare lo scambio. Una vita nuda, ricordiamocelo, amorfa: priva di storia ed emozioni.
Torniamo ora ai fatti di Minneapolis. Il corpo di George Floyd è una rappresentazione plastica di ciò che Marx intende per “nuda vita” durante la compravendita di forza-lavoro. Si badi: aver rievocato le parole del filosofo di Treviri serve a focalizzare l’attenzione su due aspetti. Il primo aspetto: la riduzione della vita delle persone a “cose semplicemente presenti” manipolabili a piacimento (anche attraverso torture) non costituisce un episodio della storia contemporanea, che trova periodicamente espressione nei fatti di cronaca di cui i rotocalchi pullulano. Tutt’altro. La nuda vita rappresenta la condizione di possibilità, di riproduzione, del sistema economico e sociale in cui viviamo.
In termini più chiari: l’economia di mercato riesce a produrre la propria ricchezza e soprattutto i propri profitti solo e soltanto attraverso l’utilizzo della forza-lavoro umana, quindi le capacità cognitive, linguistiche e passionali di cui ciascuno di noi è dotato per natura. Tuttavia, per procacciare tutto ciò, non si può non imbattersi in corpi, che sono i custodi di questo insieme di potenzialità, corpi i quali, affinché la contrattazione lavorativa avvenga, non possono che essere “nudi”. D’altronde Confindustria si è proprio appellata alla libertà di utilizzare la mera vita dei lavoratori, mentre il coronavirus distruggeva i loro tessuti cellulari.
Le storie con cui ho aperto questo articolo, nella loro terribile differenza, singolarità e unicità, fanno riemergere, attraverso le immagini dei corpi scarnificati, ciò che da sempre è latente e rimosso, quindi indicibile e spettrale nella nostra società, fungendo nel contempo da coazione a ripetere: la compravendita di forza-lavoro.
Secondo aspetto: sarebbe imperdonabile storcere il proprio nasino troppo delicato per credere che la violenza del potere in generale o quello rappresentato dagli apparati di Stato sia un fatto nuovo nella storia della civiltà. Basta aprire un manuale di storia, anche antica, per rendersene conto. C’è però questo di nuovo nell’età contemporanea: l’interesse e la gestione dei corpi da parte del potere diventa un fatto pubblico-politico, non più privato, solo quando la vita diventa il sostrato di ciò che davvero conta, la forza-lavoro. Il potere però non si limita a disciplinare: si prende cura del tempo libero degli individui, dei loro consumi, della loro interiorità e addirittura della loro libertà, come una rete cerca di intrappolarli continuamente nel dispositivo di debito-colpa.
Il razzismo, i femminicidi, le morti sui luoghi di lavoro, l’austerity, l’inquinamento ambientale, tutto ciò concorre ad utilizzare a proprio piacimento l’ambiente e la vita delle persone, rese anonime e private della loro preziosissima singolarità. Combattere queste piaghe non può mai prescindere dalle battaglie per liberare il singolo (attraverso tattiche, strategie, compromessi ecc.) dalla condizione lavorativa salariata, cioè dalla particolare condizione con cui l’economia di mercato ha inteso declinare il lavoro umano. Altrimenti si ricade nella falsa coscienza liberale, invocando astratti diritti umani che garantirebbero a priori la libertà, l’uguaglianza e la felicità. Il diritto trova applicazione e interpretazione in ultima istanza a partire dalle particolari forme di vita sociali in cui si è gettati; è fallace perciò parlare di uguaglianza e libertà naturali. Si diviene e non si nasce mai liberi.
[…] di riproduzione sociale; il capitale delle risorse naturali; il potere politico; l’oppressione razziale, che fornisce al sistema individui privi di tutela politica, non soltanto sfruttabili ma […]