Nel senso comune, la privatizzazione sembra essere una questione meramente economica. Se non funziona, ecco scoperchiati i danni del neoliberismo! Se invece funziona, ecco smentito lo statalismo! “Privatocrazia”, edito da Mondadori, studia il tema da un punto di vista diverso. La privatizzazione è affrontata come una questione di legittimità: un approccio diverso dal solito, soprattutto nel dibattito italiano.
Autrice del libro è Chiara Cordelli, politologa italiana che insegna all’Università di Chicago. Il volume è la versione condensata (e adattata al contesto italiano) di un testo più impegnativo, “The Privatized State”, che è valso a Cordelli il premio per la migliore opera prima di teoria politica dello European Consortium for Political Research (ECPR).
Una questione di legittimità
Nel libro la parola “privatizzazione” indica genericamente il trasferimento di responsabilità pubbliche ai privati: non solo la vendita di asset pubblici, ma anche l’esternalizzazione di funzioni.
E che si intende per privatocrazia? Si tratta, spiega Cordelli, di un sistema che amministra il pubblico tramite il privato. La tesi centrale è che un sistema di questo tipo non può governare in modo legittimo. La privatocrazia, infatti, “compromette le ragioni stesse per le quali uno Stato democratico è chiamato a esistere, minandone la legittimità dall’interno” (pag.11).
In primo luogo, essa rende sempre più difficile per i cittadini esercitare il controllo direttivo sui processi amministrativi. Si crea un circolo vizioso:
“più un governo esternalizza, meno capacità conserva di raccogliere informazioni adeguate sulle prestazioni dei propri agenti privati e dunque anche meno capacità di scegliere delegati competenti”
(pag.23)
E non finisce qui. “La privatizzazione nasconde il volto del governo”, con effetti pericolosi sul senso civico. Infatti, “quando le persone non vedono le istituzioni pubbliche come le principali fornitrici dei benefici che ricevono hanno meno ragioni per interessarsi e sviluppare un attaccamento a esse” (pagg.25-26).
Infine, esternalizzando un numero crescente di compiti pubblici, i governi diventano sempre più dipendenti dai privati. In questo modo, si rafforza il potere di poche grandi imprese e si espongono le istituzioni pubbliche a un condizionamento indebito. A venire minata è l’eguaglianza di opportunità di influenza politica.
Ecco che le tre condizioni per l’autogoverno democratico (controllo direttivo, vigilanza, eguaglianza) vengono messe a serio rischio, compromettendo la legittimità dello Stato stesso. Perciò, la privatizzazione delle funzioni pubbliche più importanti (come la sanità) non può essere considerata solamente “ingiusta” o “inefficace”, ma deve essere ritenuta illegittima. In parole povere, non valida.
Il dominio rientra dalla finestra
Nell’argomentazione c’è un punto ancora più importante:
“privatizzandosi, (…) lo Stato rischia di riprodurre al suo interno quella condizione di dominio (…) che esso stesso era chiamato a superare”
(pag.30)
La privatizzazione di un certo servizio può essere più o meno efficace, più o meno efficiente. Ma se quel servizio è davvero importante per la collettività il rischio è anche che i cittadini vengano subordinati indebitamente alla volontà privata di altri privati: al loro dominio.
Guardandosi attorno, è desolante osservare come la narrazione della privatocrazia abbia attecchito ovunque, anche a sinistra. Ne è un esempio l’idea del terzo settore come “supplente” dello Stato privatizzato (molto in voga fra i neoliberali di sinistra e non solo).
La devoluzione al terzo settore di importanti responsabilità pubbliche, sostiene Cordelli, è anch’essa una forma di privatizzazione. Non è indifferente che i bisogni sociali siano soddisfatti con risorse private o pubbliche. Infatti:
“tali bisogni non sono (…) semplicemente bisogni, bensì diritti, ossia rivendicazioni dirette ad altri, non in capacità di individui privati, ma in capacità di membri della stessa società politica”.
E quindi:
“possono essere soddisfatti solamente dai cittadini, in veste pubblica, ossia per mezzo dello Stato che in loro nome è chiamato ad agire”.
Dal ragionamento all’immaginazione politica
In generale, la tesi del libro sembra convincente. E non solo a livello formale, perché con i nostri occhi possiamo vedere chiaramente gli effetti dell’irresponsabilità dei “privatòcrati”. Si pensi, ad esempio, alla gestione della sanità in alcune regioni d’Italia e negli Stati Uniti.
Sono effetti che si ripercuotono sulla qualità dei servizi (efficacia), ma anche sull’appartenenza e la partecipazione civica. Infatti, se lo Stato si disinteressa attivamente di settori importanti come la sanità e l’edilizia sociale, perché i cittadini dovrebbero interessarsi alla politica? Se lo Stato non può fare nulla, perché io cittadino dovrei fare qualcosa?
Di fronte a tale cortocircuito, diventa un dovere politico dotare il settore pubblico di maggiori competenze, responsabilità e capacità di spesa. È qualcosa che abbiamo fatto in passato e che siamo in grado di fare ancora. Ne va delle fondamenta stesse dello Stato democratico.
Ma forse il problema è proprio questo. La disillusione sulle possibilità di azione democratica dello Stato è ormai penetrata a fondo negli interstizi della società. Per invertire il processo di privatizzazione, non basta confutarlo filosoficamente. Le possibilità di mobilitazione sociale del liberalismo kantiano, pur brillante, che anima il libro di Cordelli sono limitate. Servirebbe un immane sforzo di immaginazione politica, un rivolgimento delle forze sociali, che però ancora non si vede all’orizzonte. Bisogna ricostruire nel tessuto concreto della società un consenso ampio e diffuso per un nuovo ruolo dello Stato, concretamente democratico.
Anche se “Privatocrazia” non tratta direttamente questo aspetto, resta comunque una ventata fresca di universalismo nella nostra politica spezzettata. È da libri come questo che dobbiamo far ripartire il discorso sullo Stato.